Anatomia della tortura in carcere

19 Mar 2024 Giuseppe Mosconi

All'indomani della pubblicazione delle violenze avvenute l'11 agosto 2023 nel carcere di Foggia dove una decina di agenti hanno pestate due detenuti (documentate dai video delle telecamere di sorveglianza), riproponiamo l'analisi di Giuseppe Mosconi pubblicata sul numero  di febbraio di Voci di dentro, pag.40.. 

"Il caso di Stefano Dal Corso, trovato morto nel carcere di Oristano il 12 ottobre del 2022, inizialmente rubricato come suicidio, ma successivamente riaperto dalla Procura come caso di omicidio, in seguito a una rivelazione che assocerebbe il fatto a un intervento della polizia penitenziaria, riapre la questione delle morti violente per mano poliziale. 
Come già per molti casi precedenti, da Aldrovandi a Magherini,, da Cucchi a Bianzino e Mastrogiovanni,  per citare i più famosi, si pone la questione di interpretare e analizzare gli elementi  culturali e, di  conseguenza, identitari, che motivano negli agenti comportamenti tali da provocare la morte dei soggetti sottoposti al loro intervento coercitivo. Si tratta di una questione che si pone in continuità con i molti episodi di tortura in analoghe circostanze, dai fatti di Genova 2001 a quelli di Santa Maria Capua Vetere, nell’aprile del 2020.
In particolare è da chiedersi che cosa possa spingere uno o più agenti che abbiano sottoposto un soggetto a coercizione fisica, così da annullarne ogni possibile reattività, a protrarre consapevolmente la loro azione fino all’esito estremo. È qui che si rivela un sostrato culturale, una percezione del sé e del proprio ruolo, che meritano di essere interpretati e approfonditi. Ritengo che alla radice di questi comportamenti si pongano tre forme di semplificazione. Quella della natura e dei compiti dello Stato in rapporto alle  esigenze della società; dall’altro delle proprie funzioni all’interno dello stesso; quella delle aspettative della società rispetto ai propri compiti e al proprio ruolo; quello dei soggetti che devono essere sottoposti al loro controllo e al loro intervento. 
Sotto il primo aspetto lo Stato è vissuto come autorità assoluta, sovrapposta alle relazioni sociali, con il compito di garantirne l’ordine e la regolarità, attraverso il rispetto della legge e delle regole sociali. La società è vissuta come insieme di aspettative di sicurezza e di normalità, che si ha il compito di affermare e garantire, secondo una mission dalla stessa ricevuta. I soggetti da sottoporre al proprio potere disciplinare sono, come logica conseguenza, gli irregolari, i marginali, privi di forme lecite di sostentamento, i potenzialmente pericolosi, i devianti di ogni risma: più o meno presunti delinquenti tossicodipendenti, clandestini, nullafacenti, homeless, agitati, alterati ingovernabili; questuanti, nomadi, comunque nell’insieme abietti e “pericolosi”, rifiuti sociali, indegni di essere ammessi nella medietas onorevole della normalità condivisa. 
È noto come gli episodi di tortura, anche e soprattutto quando si concludono con un esito letale, vengano attribuiti ad alcune “mele marce” presenti all’interno delle FF.OO. o a “schegge impazzite”, la cui presenza e il cui operato, pur illecito e censurabile, non intacca l’affidabilità e la correttezza dell’operato in genere dei settori istituzionali in questione, la loro onorabilità e lealtà alla legalità costituzionale. Altrettanto frequente è il fatto che l’evento lesivo sia dovuto ad accadimento accidentale (la solita “caduta dalle scale”) o ad atti di autolesionismo da parte della vittima, o a conseguenze inevitabilmente connesse allo stile di vita della stessa, al suo stato di salute, a quella combinazione di eccessi, sregolatezze e trascuratezza che connotano il modo di vivere di soggetti trasgressivi e marginali. Per altro verso gli episodi in questione vengono rappresentati come espressione di un intervento necessitato dall’esigenza di “compiere il proprio dovere”, nel pieno esercizio delle proprie funzioni istituzionali, a fronte dell’illecita e pervicace resistenza, o di comportamenti violenti e aggressivi da parte dei soggetti colpiti. 
Il fatto è che la violenza esercitata diviene non solo motivata, ma costitutiva delle immagini negative che stigmatizzano le vittime di turno, di volta in volta rappresentate come soggetti violenti, reietti e pericolosi. La violenza esercitata si traduce tout court in meritevolezza, e quindi in rispondenza ad alcune o eventualmente alla combinazione dell’insieme di queste negatività. Secondo i termini classici del noto meccanismo della “self fullfilling profecy ”, di beckeriana memoria,
Si tratta dunque di prendere in considerazione il sostrato culturale e identitario che sottende queste rappresentazioni e la violenza dei   conseguenti comportamenti. Diversi potrebbero essere i fattori che influenzano o motivano questi fatti. In primis un sentimento di frustrazione, di subalternità, una percezione di disconoscimento del proprio ruolo; cui si associa uno spirito di revanche, di riscatto attraverso la dimostrazione della propria forza e del proprio potere. In secondo luogo uno “spirito di corpo”, una cultura militaresca, riferimento di una rassicurante appartenenza, che si consolida, come riferimento preponderante nel confronto/scontro con il nemico esterno di turno, corrispondente di volta in volta con le figure negative più sopra evocate, con riferimento alle quali marginalità, inferiorità, sgradevolezza, ma anche pericolosità e antisocialità riassumono in sé tanto i tratti di debolezza che di negatività che ne fanno il nemico ideale, o meglio l’obiettivo naturale, quasi fantasmatico e aprioristicamente definito, contro cui sfogare il combinarsi appunto, di frustrazione e solidarietà di corpo.
L’idea, poi, di agire e consolidare così una propria sfera arbitraria di potere inattaccabile e assoluto, quale risulta dall’esercizio della forza e della coercizione fisica contro chi “se lo merita”; un potere che si percepisce e si raffigura come rafforzato da una indiscussa copertura istituzionale e connivenza politica, rafforzate dal credito di cui, non a torto, si ritiene godano i sindacati di categoria, con tutto il corporativismo che li caratterizza. Il paradosso di applicare la legge al di sopra della legge, secondo la percezione di una inattaccabile e invulnerabile superiorità; quasi un senso di onnipotenza.
Può poi rilevare la convinzione di adempiere, con questi atti, ad una mission ricevuta da parte dell’opinione pubblica; un misto di richiesta di sicurezza e di reattività animata insieme da spregio e vendetta, nel cui adempimento l’identità degli autori ne esce rivalutata e rafforzata. Episodi come la manifestazione sotto le finestre degli uffici della madre di Federico Aldovrandi, o la mobilitazione per rimuovere la targa in memoria di Carlo Giuliani, nel cinismo acefalo di cui sono espressione, si commentano da soli. Se nell’insieme di questi aspetti emergono i tratti di una disarmante e dequalificante semplificazione culturale. È d’altra parte proprio qui che si radica quell’ambiguità, cui abbiamo accennato,  tra iperlegalità, vendicativa e punitiva, e illegalità, come sottrazione del proprio comportamento a qualsiasi limite normativo, che sembra costituire l’essenza della motivazione a torturare e ad uccidere. 
A ciò si aggiunge un altro aspetto paradossale: la coesistenza tra vittimismo e prepotenza, tanto più pretestuosa e indefettibile, quanto più ci si rappresenta come disconosciuti e bistrattati, nonostante la situazione di pericolo e di sacrificio cui si è costantemente esposti, a salvaguardia della collettività. E’ qui che si pone l’essenza di quella cultura corporativa che porta a fare quadrato attorno a organizzazioni e rappresentanze sindacali che pongono al primo posto quello spirito di corpo che costituisce l’istanza preponderante nel definire a proprio vantaggio i rapporti di potere sul piano politico e istituzionale, secondo una logica fortemente autoreferenziale, con i conseguenti esiti legislativi. Questo insieme di aspetti rende comprensibile il fatto che , se all’interno delle FF.OO, qualcuno intende affermare e mantenere un atteggiamento corretto, rispettoso della legalità e della Costituzione, lo stesso venga stigmatizzato e isolato, come una sorta di timido vigliacco, se non di “traditore”, che mette a repentaglio l’incolumità la sicurezza, ma anche l’onorabilità, di tutti. Sotto questo profilo e in questo quadro si può cogliere a pieno il senso dell’ostilità e della resistenza a d apporre sul casco il codice identificatore. Se proprio lo stesso potrebbe essere il segno della propria correttezza e lealtà istituzionale, in quanto testimonianza di non aver nulla da nascondere nello svolgimento dei propri compiti e della propria professionalità, il contesto culturale in cui la misura si pone tende attribuirgli reattivamente il senso di una scarsa affidabilità, di una sorta di ammissione di responsabilità e di una giustificata sottomissione a controllo, i cui termini sono evidentemente incompatibili con i tratti essenziali dello stesso contesto. Se consideriamo poi il concorrere della protezione concordata nel quadro dell’alleanza tra diverse forze politiche (la maggioranza di esse, in senso trasversale, in competizione tra loro) con l’imporsi tetragono del corporativismo sindacale, completiamo il quadro in cui i tratti culturali interni al settore, ora ricostruiti, si compattano e si consolidano. In questo senso la violenza poliziale, ancor più se agita fino alla soppressione delle vittime, risulta indicatore di un subdolo e invasivo sistema di violenza diffuso nell’insieme delle relazioni sociali. 
Non intendiamo solo riferirci alla violazione dei diritti soggettivi alla vita,  all’integrità fisica, alla libertà di movimento, alla dignità, alla non sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti, che la tortura, tanto più se con esito letale, in quanti tale riassume, ma alla più ampia sfera dei diritti umani e della legislazione posta a tutela degli stessi, con i quali la tortura confligge; così come all’ambito ancora più ampio dei diritti alla soddisfazione ai bisogni fondamentali, alle libertà civili, alla trasparenza nella gestione delle competenze istituzionali alla partecipazione democratica, alla sicurezza, intesa come sostanziale sicurezza sociale, alla correttezza dell’informazione, di cui gli episodi di tortura, tanto più se istituzionalmente protetti, nonché socialmente accettati, sono indicatore.
Per altro verso, ma a ulteriore conferma di quanto appena rilevato, va considerato come la violenza poliziale riassuma in sé, in modo diretto  e drammaticamente enfatizzato, i termini della colpa e della punizione, o più sostanzialmente del castigo, anche eventualmente fino ai suoi esiti estremi, così associandosi ai significati della penalità, e del carcere, che della stessa è esplicita reificazione. Una penalità che ha perso la proporzione razionale e garantistica delle origini moderne, per confluire nella sfera della produzione simbolica, come strumento fondamentale del controllo sociale.
In questo senso, pur ponendosi evidentemente in una “zona grigia” tra diritto e non diritto, la violenza poliziale si pone a suggello di un universo di senso che tende ad autoriprodursi in quanto tale, coniugando colpa, condanna, afflizione, repressione, annientamento. In sintesi tutti elementi sostanzialmente costitutivi della sfera del penale e del punire, che nella tortura, tanto più se letale, esplodono estremizzati, in tutta la loro violenza e distruttività. È evidente come tutto ciò dischiuda la necessità di un più sostanziale cambiamento, a molti livelli, tra loro interrelati, nell’informalità delle relazioni sociali, ma insieme nel contesto istituzionale e nell’ambito legislativo, così da coinvolgere, a un primo livello, i fondamenti stessi di quella diffusa e articolata cultura punitiva, ma soprattutto, in termini più generali, di quella profonda crisi sociale e istituzionale, di cui i fatti in questione  sono espressione estrema.
*Giuseppe Mosconi, già docente di Sociologia del diritto, Università di Padova

Questo testo riprende, in forma sintetizzata e in parte modificata e integrata, passi di un più ampio scritto dell’autore, “La tortura tra diritto e culture della violenza”, incluso  nell’ ebook  “La tortura nell’Italia di oggi”, a cura di C. Antonucci, F. Brioschi, C. Paterniti, pubblicato nel sito dell’associazione Antigone,nel luglio 2020