Da anni ormai, la gestione della nostra vita è ben localizzata. È tutto nelle nostre mani. Basta tirare fuori lo smartphone e le soluzioni sono a portata di click. Identità, gestione delle proprie finanze, comunicazioni. Tutto quello per cui prima dovevamo investire tempo ed energie, oggi lo possiamo fare tranquillamente dal divano di casa, ai tavolini di un bar o alla banchina di una metropolitana. Un centro di controllo tascabile che ha - impossibile sostenere il contrario – rivoluzionato le nostre vite, semplificandole. Col tempo anche i più nostalgici si sono dovuti ricredere, e dare al digital quello che è del digital: la forza del progresso, quello che volenti o nolenti, tutti abbiamo dovuto abbracciare, a costo di accettare l'idea poco filosofica di condurre un'esistenza alle dipendenze di aggeggi senz'anima, sacrificando parte di quel serbatoio umano che resta materiale prezioso ma funzionale solo in forma ridotta.
Eppure c'è un luogo, quel solito, occulto luogo, dove l'upgrade non è mai arrivato, uno spaccato arcaico ai margini della società. Sì, il carcere. Un luogo dove il tempo pare essersi fermato, dove ancora oggi, nel 2025, i residenti devono compilare le loro legittime richieste scrivendo su fogli bianchi che prendono il nome di “domandine”, che passano di mano in mano prima di raggiungere la scrivania di chi dovrà dare le “rispostine”. Un luogo dove la corrispondenza tra familiari e detenuti, salvo rare eccezioni, è ancora e unicamente epistolare, dove i cancelli si aprono solo con le chiavi – e di cancelli, in carcere, ce n'è uno ogni 10 metri – e i sistemi di sorveglianza sono rimasti fermi ai primi messi sul mercato. Insomma, un luogo dove il tempo ha schiacciato pausa da qualche decennio, senza più ripremere play. E nessuno sembra voler fare un passo avanti, neanche per sbaglio.
Chi entra in carcere costantemente, come i volontari di Voci di dentro, ha l’impressione di essere catapultato in un mondo che fuori non esiste più. Dove la tecnologia si limita a televisioni e radio, come avveniva nelle nostre case oltre trent’anni fa. Dove tutto si muove attraverso carta e penna. Un mondo in cui l’ufficio matricola trasmette documenti via fax, ormai un oggetto di modernariato che molti studi legali sono costretti a mantenere attivo per comunicare con l’amministrazione penitenziaria.
Un mondo di carta che viaggia sulle gambe del “camminatore”, così è definito l’agente incaricato di fare il giro delle sezioni per vuotare la cassetta della posta nella quale il giorno precedente sono state imbucate lettere e domandine. In ogni ufficio tutto è archiviato in voluminosi registri ottocenteschi sui quali l’amanuense annota ogni istanza. E cumuli di carta da smistare, con le famigerate domandine che spesso si perdono lungo il tragitto causando l’inevitabile innalzamento della tensione nell’equilibrio precario in cui sono costrette a vivere le persone recluse, fatto di attese infinite e di tempi che non si compiono mai.
Carcere e tecnologia sembrano un ossimoro. Qualche spiraglio di innovazione pareva aprirsi quando, con la circolare del 2 novembre 2015 “Possibilità di accesso ad Internet da parte dei detenuti”, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dettava le linee guida sull'utilizzo dei personal computer e della connessione internet per motivi di studio, formazione e aggiornamento professionale negli istituti penitenziari da parte dei detenuti, che avrebbero potuto navigare su siti di una white list. Una conquista non da poco, considerato il contesto di cui sopra. Ma soprattutto, la silenziosa testimonianza di un'apertura delle istituzioni verso la tecnologia applicata al carcere, nel tentativo di accorciare la distanza dagli istituti di pena più moderni e all'avanguardia che, manco a dirlo, si trovano fuori dai nostri confini. Avrebbe potuto essere lo spartiacque per portare l'innovazione nel sistema più conservatore, una scelta che avrebbe favorito il diritto allo studio e all’affettività. A un decennio di distanza, come al solito, sono rimasti solo buoni propositi.
Poi è arrivata la pandemia di Covid-19 che, con tutte le sue chiusure, aveva portato a un’apertura: quella del carcere alla tecnologia. All’indomani del primo lockdown nel marzo 2020 e delle proteste delle persone detenute in decine di istituti penitenziari, arrivarono centinaia di telefoni e tablet e si aprì la possibilità di fare videochiamate attraverso Skype o whatsapp, con un minutaggio molto più ampio dei dieci minuti a settimana previsti da norme e regolamenti, anche per far fronte alla chiusura dei colloqui visivi. Tuttavia quell’apertura, nonostante l’auspicio che fosse definitiva, è durata poco e alla fine della pandemia si sono fatti passi indietro. In moltissime carceri le telefonate sono tornate a dieci minuti a settimana e solo con i classici apparecchi telefonici. Le video chiamate resistono solo in sostituzione dei colloqui in presenza. Quando si affronta il tema della tecnologia in carcere, solitamente ci si imbatte in resistenze e chiusure relative a questioni legate alla sicurezza. Ma è proprio la positiva esperienza sull’uso di telefonini e tablet che dovrebbe aver contribuito a decostruire queste preoccupazioni.
La questione dell’assenza di tecnologia in carcere è molto più seria di quanto si potrebbe pensare. Costantemente sentiamo parlare di digital divide e di quanto ciò rappresenti una criticità enorme in un mondo che sempre più spesso, e per alcune cose ormai quasi esclusivamente, passa attraverso tecnologie digitali. Di quanto un gap da questo punto di vista possa precludere la fruizione di servizi, l’accesso alle informazioni, le opportunità di lavoro, impattando direttamente non solo sulla sfera relazionale delle persone, ma anche sul godimento di alcuni diritti inalienabili. Il divario digitale può rappresentare una forma di disuguaglianza e un grave fattore di esclusione sociale, che colpisce in particolar modo ceti sociali che già vivono in situazioni marginali e svantaggiate. Per questo, da tempo, le istituzioni governative sono impegnate nel tentare di colmare questo gap. Ovunque, tranne in carcere, dove invece questo divario viene ulteriormente ampliato.
Garantire l’accesso alle tecnologie e la navigazione in Internet nelle carceri, dovrebbe essere parte integrante del trattamento e non una questione secondaria o problematica. Da questi aspetti dipendono tanti dei nostri diritti di cittadini e tante delle nostre future possibilità lavorative. E quindi anche tanto del percorso di reinserimento sociale. La domanda che dovremmo porci è la seguente: come possiamo sperare che, persone detenute che vogliano impegnarsi a seguire un percorso di rieducazione e preparazione alla vita lavorativa, non siano spaventate al punto da avere paura della libertà, se non diamo loro gli strumenti per affrontarla? Fuori i cambiamenti sono continui, rapidi e radicali. Le nuove tecnologie stanno cambiando il modo di pensare, interagire e lavorare; perdere qualche puntata di questa evoluzione significa dover rincorrere il mondo per colmare la distanza, qualche volta incolmabile.
Qualcuno tra gli ospiti delle patrie galere vi ha fatto ingresso quando per orientarsi durante un viaggio si consultavano le cartine di “Tutto città” e si telefonava a gettoni dalle cabine. Come dovrebbe trovarsi di fronte a strumenti ormai indispensabili quali l’identità digitale e i pagamenti con lo smartphone? Esiste pertanto un divario tra la realtà del mondo libero e ciò che la struttura carceraria può offrire, una condizione in cui si rischia di rimettere in libertà dei disadattati, impreparati ed incapaci di confrontarsi con la nuova realtà.
Il detenuto prima o poi diventerà ex detenuto, una “qualifica” che non perderà mai e di certo non rappresenta un vantaggio. Per gareggiare ad armi pari nella difficile rincorsa al lavoro, deve avere una marcia in più, un plus, un valore aggiunto che gli consenta di annientare l’handicap; l’offerta trattamentale adottata dagli istituti di pena deve tenere conto di questa esigenza, altrimenti sforneranno “prodotti” invendibili perché fuori mercato.
Evidentemente la prigione è un mondo che non ci appartiene, non siamo culturalmente evoluti e pronti per premere CTRL + ALT + CANC- un comando semplice per sbloccare la mente e riavviare funzioni dimenticate-, ma quantomeno dovremmo fare un aggiornamento di un sistema che si è impallato e non gira più. È ora di premere play.