Dal carcere alle comunità terapeutiche. L’esodo che non risolve niente
07 Oct 2025 Anna Paola LacatenaLa dipendenza patologica da sostanze legali e illegali non è una questione morale. È più realisticamente e scientificamente - spesso i due ambiti vengono scissi con conseguenze rovinose - una questione biopsicosociale, dove nel determinare lo stato di salute o malattia è coinvolta l’interazione tra fattori biologici (genetici, organici), psicologici (emozioni, personalità, comportamento) e sociali (cultura, famiglia, ambiente). Questo approccio non può registrare l’esclusione, per comodità e ricerca di consenso politico, di quanti si trovano in condizione di violazione della legge o in detenzione, senza disattendere il dettato costituzionale per il quale è garantita la tutela della salute come diritto fondamentale per tutti, anche per chi è in carcere (art.32). Nel nostro Paese, infatti, ammonta a circa il 34% la percentuale di detenuti per violazione del Testo Unico sugli stupefacenti (DPR 309/90) e al 40% quelli che, entrando in carcere, dichiarano di farne uso in prima persona.
Il Governo ha recentemente affermato che i detenuti che usano droghe non possono stare in carcere, ipotizzando il collocamento in Comunità terapeutiche. Lo ha fatto ignorando che questo è già previsto ex art. 90 e 94 del DPR 309/90, e per rinvenire una soluzione all’annoso problema del sovraffollamento e dei suicidi negli istituti di pena piuttosto che per una reale attenzione alla cura e al trattamento della persona con Disturbo da Uso di Sostanze (DUS).
Questo orientamento è comprovato dalle misure d’urgenza adottate con il D.L. n.123 del 15 settembre 2023 - convertito nella legge 159/2023 - più noto come decreto “Caivano” e dalle disposizioni parzialmente confluite nel D.L. n.48 del 11 aprile 2025 (decreto “Sicurezza”), tra le quali il divieto di vendita, detenzione, lavorazione e commercio di prodotti derivati dalle infiorescenze, anche se con THC al di sotto dei limiti precedentemente fissati dalla normativa.
In estrema sintesi, da una parte il Governo accresce oggettivamente il numero di detenuti e possibili tali, dall’altra cerca strumenti normativi per sfoltire il numero degli ospiti delle patrie galere. Ecco allora correre in soccorso della politica la percepita come sempre valida (dagli anni Ottanta) idea della Comunità Terapeutica come rimedio che può rivelarsi in molti casi utile ma non certo universalmente valido.
SerD, strutture e utenza
Nonostante nella Relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia 2025 si segnali che in Italia sono attivi 571 Ser.D. (Servizi per le Dipendenze) afferenti al Servizio Sanitario Nazionale – realtà socio-sanitarie ad approccio multidisciplinare, territoriali, ad eccesso diretto e gratuito - articolati in 621 sedi operative (la copertura informativa riguarda il 96% delle sedi censite), gli stessi non sono quasi mai citati nel dibattito pubblico, figuriamoci considerabili meritevoli, nonostante il prezioso lavoro quotidiano, di una visita istituzionale (se non la Presidente del Consiglio, almeno un sottosegretario) .
Dalla rilevazione “Conto Annuale del Personale della Pubblica Amministrazione”, della Ragioneria Generale dello Stato, risulta che nel 2023 (ultimo anno per il quale sono disponibili dati) i professionisti dei Servizi pubblici per le Dipendenze dedicati alla cura delle dipendenze da sostanze illegali erano 6.005 (6.082 nell’anno precedente).
Considerati i grandi numeri del fenomeno quasi ovunque in Italia, è ragionevole concludere che i SerD sono ormai da anni in condizioni di sotto organico. Forse solo le realtà istituzionali e del privato sociale dedite a iniziative e progetti di Riduzione del Danno, possono vantare simile o peggiore sottovalutazione e fastidio da parte di una buona parte dei decisori politici.
Poco importano, dunque, la scienza, gli studi, i dati di ritorno, i programmi ambulatoriali (SerD): per una gran parte della popolazione, ben accudita e debitamente orientata in maniera propagandistica, la dipendenza patologica, quando non anche il più diffuso uso da sostanze legali e illegali, era e resta una questione morale.
Secondo gli ultimi dati dell’Associazione Antigone (luglio 2025), al 30 giugno dell’anno corrente le persone detenute erano 62.728, in aumento di 1.248 unità rispetto all’anno precedente e con un tasso di affollamento reale del 134,3% data la capienza regolamentare di 51.276 posti. Numeri spaventosi che fanno temere nuove condanne per il nostro Paese da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) sulla scia della Sentenza Torreggiani (2013).
Le strutture terapeutiche gestite dalle organizzazioni del Privato Sociale e rispondenti al flusso informativo semestrale del Ministero dell’Interno, alla data del 31 dicembre 2024, sono risultate essere 761 (873 complessivamente esistenti). Di queste, il 75% è di tipo residenziale, il 16% semi-residenziale e il 9% ambulatoriale, con una netta prevalenza nelle regioni settentrionali (60%) e con un numero di persone seguite pari a circa 23.977 utenti a fronte di 13.862 posti (14,6 per struttura).
I 10 errori del Governo
Perché il ventilato esodo di parte dei detenuti con DUS verso la terra promessa delle Comunità Terapeutiche non risolverebbe il problema del sovraffollamento e con buona probabilità neanche quello della propria dipendenza patologica? Senza pretesa di esaustività, almeno per dieci ragioni.
La prima ragione sta nell’esiguità dei posti a disposizione e nel rapporto strutture e popolazione residente di poco inferiore a 2 ogni 100.000 abitanti di età compresa tra i 15 e i 74 anni. Di fatto le Comunità che accolgono, anche e soprattutto, persone in stato di libertà, non potrebbero coprire il fabbisogno che potrebbe andare a determinarsi nel tempo.
La seconda ragione, trasferibile a monte di qualsiasi considerazione a proposito della dipendenza patologica, è che la stessa è una malattia (vedi Organizzazione Mondiale della Sanità), non una condizione passibile di disprezzo e punizioni - si ricorda che l’uso di sostanze in Italia è un illecito amministrativo non un reato penale. Questa peculiarità dovrebbe farci interrogare sull’incompatibilità della libertà di cura con l’obbligo della stessa.
La terza ragione è che se la persona non sceglie di aderire a un programma terapeutico è assai facile che la cura non dia i risultati sperati, centrando al più l’obiettivo di alleggerire le coscienze politiche e il quotidiano di famiglie esasperate. Quarta ragione: le Comunità Terapeutiche sono luoghi di cura, non di reclusione e pena, e dunque non sono attrezzate in termini di strumenti, mission, visione, organizzazione per farne le veci. Senza un controbilanciamento di ingressi di persone provenienti dallo stato di libertà finirebbero per diventare colonie penali in balia di dinamiche tipiche della detenzione.
Quinta ragione: provate ad oggi da iter estenuanti per accedere agli standard richiesti dall’accreditamento istituzionale e dalle conseguenti spese sostenute (personale, adeguamento delle strutture, ecc.) - anche oltre i 20 anni di attese dettate da politiche e burocrazia - nonché da eventi imponderabili come gli anni del Covid-19 (almeno 2020-2021), le Comunità Terapeutiche vivono condizioni di grande disagio economico che non sarebbero risolte da una spesa sanitaria che crescerebbe a dismisura a fronte delle contrazioni e dei tagli degli ultimi anni.
Ad oggi - sesta motivazione - molte strutture sono ancora legate a vecchi schemi a proposito di programma comunitario con il riscontro del numero bassissimo di ospiti che lo portano a termine - ulteriore approfondimento meriterebbe l’area delle ricadute nell’immediato post Comunità. Di fatto oggi, dipendenti patologici inseriti nel tessuto sociale, con una propria dimensione lavorativa e familiare, sempre più difficilmente accettano i consueti programmi di 18, 24 fino a 30 mesi.
Più spesso utilizzano la C.T. per darsi una sorta di reset che non va oltre i 3/6 mesi. Per contro è assai frequente che quanti raggiungono il fine programma sono persone senza fissa dimora e senza reti sociali e familiari la cui collocazione post C.T. diventa particolarmente difficoltosa. In questo caso la struttura viene utilizzata come residenza in assenza di alternative proponibili da parte di altri Servizi. Per quanto tempo tutto ciò potrebbe essere sostenibile da parte della struttura ospitante?
La settimana motivazione riguarda ancora la durata dei programmi. Ipotizzando un residenziale terapeutico-riabilitativo di 18 mesi, come da accreditamento e susseguenti accordi contrattuali con l’Azienda Sanitaria Locale che paga le rette pro die, qualora la persona giungesse dal carcere con una pena anche solo sotto i quattro anni - potrebbero essere di più anche da normativa attualmente vigente - cosa accadrebbe dopo un anno e mezzo? La persona passerebbe al programma ambulatoriale presso il SerD? Continuerebbe a permanere in C.T. pur avendo terminato il percorso previsto e occupando, dunque, un posto che dovrebbe essere a disposizione di altri? Tornerebbe in carcere? Quest’ultima ipotesi sarebbe davvero fallimentare.
Ottava ragione: qualora ci fossero liste d’attesa - sempre più diffuse su tutto il territorio nazionale così come il veto delle Regioni a invii fuori dal proprio territorio regionale - con quali criteri le stesse sarebbero costruite? Cioè come si valuterebbe l’impellenza di un ingresso rispetto a quella di un altro?
Sarebbe più improcrastinabile l’ingresso di una persona dal carcere, dalla strada o dal salotto di casa distrutto dai frequenti alterchi con i congiunti conviventi? È già successo che famiglie disperate abbiano cercato di acquistare disponibilità all’ingresso da parte di strutture, interloquendo con le stesse. E se la persona in carcere chiedesse al Magistrato (ex art.94 DPR 309/90), tramite il proprio avvocato, in mancanza di disponibilità di posti liberi da parte di Comunità del territorio, di accedere alle misure alternative in C.T., a proprie spese, in una struttura accreditata da lui stesso individuata? Quale sarebbe la risposta e sulla scorta di quale formazione biopsicosociale specialistica? Quale potrebbe essere una delle possibili conseguenze se non aprire alla possibilità della gestione diretta delle strutture da parte della criminalità organizzata per offrire comoda ospitalità agli affiliati e per garantire un canale legale al riciclaggio?
Allora sì che ancora una volta potrebbe curarsi (molto virgolettato) solo chi ha soldi e potere nel trionfo delle logiche dell’economia di mercato del trattamento che per assurdo finirebbe per dare ragione a chi ne ha sottolineato da sempre l’inadeguatezza o, peggio, l’opportunismo furbo.
La nona motivazione, che apre alla decima, è legata ad un’altra annosa questione: l’ancora insanata carenza di condivisione tra operatori della Giustizia e operatori della Salute circa l’interpretazione corretta di ciò che significa dipendenza patologica (termini, condizioni e contenuti). In estrema sintesi Sanità vs Giustizia: una malattia cronica e recidivante con la possibilità di ricadute e craving non può essere risolta in termini esclusivamente di volontà (o peggio pena da scontare). Non con la condanna, il ricatto morale, il biasimo si cura la malattia. A meno che non la si continui a valutarla come vizio, cattiva volontà, reato, peccato.
Se fosse così, sarebbe forse più facile, ma facile non è. Chi sviluppa questa patologia va quasi con certezza incontro a fasi critiche in cui la sostanza può riaffacciarsi, in molti casi non la stessa, virando in direzione di quelle legali (alcol, psicofarmaci) o verso comportamenti a rischio (gioco d’azzardo). Eppure dovrebbe essere risaputo che il funzionamento del sistema della gratificazione è pressoché identico per tutte le droghe. In questi casi, cosa significherebbe per l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (UEPE) e per il Magistrato di Sorveglianza se non il ritorno in carcere? Ciò che fa parte della malattia per l’operatore socio-sanitario, della sua naturale evoluzione, dei passi verso un’auspicata e auspicabile piena risoluzione spesso corrisponderebbe solo alla revoca della misura alternativa e al reingresso in cella.
L’ultima motivazione delle dieci è che le Comunità abdicherebbero alla propria funzione terapeutica per assumere quella dei controllori con il rischio di finire in balia dei controllati. Il decreto 24 luglio 2025, n.128, “Regolamento recante le disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale di detenuti, pubblicato il 15 settembre sulla Gazzetta Ufficiale e in vigore dal 30 settembre 2025, finalizzato a disciplinare l’art. 8 del cosiddetto “decreto svuotacarceri” (luglio 2024), se già le dieci ragioni non fossero sufficienti, ne aggiunge di nuove. Si legge, infatti, che i detenuti che potranno beneficiare di queste misure (circa 300 su tutta la popolazione carceraria per un totale di sette milioni di euro), dovrebbero essere persone senza domicilio, “in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento” e con “problematiche derivanti da dipendenza e disagio psichico, che non richiedono il trattamento in apposite strutture riabilitative”.
Questo significa che la dipendenza, malattia cronica e recidivante per l’OMS non è da considerare tale per il legislatore, o almeno per alcune categorie di dipendenti.
Il documento fa riferimento a un nuovo e specifico elenco di strutture residenziali per l’accoglienza ed il reinserimento sociale dei detenuti, fuori da quello previsto dalle singole Regioni. Evidentemente le nuove strutture residenziali non dovrebbero rientrare nell’ambito di quelle sanitarie – ma non si sta curando una malattia?! -, ignorando quanto stabilito dal decreto legislativo n. 502/1992 (ex art. 8 quinquies).
A proposito di vigilanza sulle stesse si legge “il Dipartimento provvede alla vigilanza attraverso gli Uffici di esecuzione penale esterna e i relativi Nuclei di polizia penitenziaria ivi istituiti.”
Attualmente la vigilanza su queste strutture e sui programmi da attuare al loro interno spetta ai Dipartimenti Dipendenze Patologiche afferenti alle Aziende Sanitarie Locali competenti territorialmente - è evidente che non si sta curando più una malattia. Circa le modalità di ammissione si precisa che: “Il Direttore dell’istituto, verificata la sussistenza dei requisiti, trasmette l’istanza all’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna ai fini dell’attestazione della disponibilità di un posto presso una delle strutture residenziali , con oneri a carico dell’Amministrazione, per un periodo massimo di otto mesi.”
“Nel caso in cui l’offerta di posti sia superiore alle disponibilità finanziarie dell’Amministrazione, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna individua le strutture residenziali in base ai seguenti parametri: a) qualità dei programmi di reinserimento socio- lavorativo di cui all’articolo 7, comma 2, lettera c), offerti; b) ove disponibili, risultati conseguiti nell’anno precedente nell’attività di reinserimento socio-lavorativo dei residenti”.
Ovvero, come risolvere il problema della dipendenza patologica ignorandola.
*Questo articolo è publicato sul numero di ottobre di Voci di dentro. Nell'immagine scattata il 29 dicembre 1979 si vede un giovane morto per droga a Milano, in una panchina di via Livigno. E' una delle prime immagini di giovani morti per droga e pubblicate sui quotidiani. Il giovane detenuto sulla panchina non aveva ancora compiuto 17 anni. Si Chiamava Dario Rizzi
*Anna Paola Lacatena è Giornalista e saggista, sociologa al Dipartimento Dipendenze Patologiche dell’ASL di Taranto. Ha insegnato Antropologia e Sociologia all’Università di Bari