
Chi è del mestiere sa che cosa s’intende per giornalismo coraggioso. È quello che non lascia dubbi al lettore, anzi li toglie. Quello che fa luce dove c’è il buio, scava dentro l’opacità delle notizie, mette la lente dove tutto è avvolto nelle nebbie di un pensiero monocorde che ha sempre i suoi portavoce replicanti. È il giornalismo del fronte e delle frontiere, del terreno minato che va attraversato comunque. Delle parole affilate come sciabole perché ci chiama a sollevarci dalle nostre comode sedie, a riaccendere le fiamme – che altri tengono basse - delle battaglie di civiltà. Non è, non dovrebbe essere mai, un giornalismo del “quasi”.
I problemi del carcere sono ormai noti. Il super-citato sovraffollamento è solo la foglia di fico che copre più di una verità che la triste attualità dei suicidi ha scoperto e messo completamente a nudo: un personale, compreso quello dirigente, insufficiente a coprire le complessità di un sistema al collasso; operatori sottodimensionati (medici, funzionari giuridico pedagogici, psicologi, volontari); istituti ridotti ad adempiere alla sola esigenza – peraltro al limite del rispetto dei bisogni della persona –del contenimento sicuritario, inadeguati nella maggior parte ad attività e impegni per i detenuti autenticamente rieducativi (lavoro, studio, formazione, relazioni sociali positive) e che rappresentano il fulcro del principio costituzionale della pena sancito nell’art. 27.
Ma se la verità è nuda, come il re, si deve constatare che da questa ci si ritrae da più parti, ormai per la vergogna di esporla. Allora, ecco usare le perifrasi, i luoghi comuni. Una di queste: “sconfitta dello Stato”. Il Ministro Carlo Nordio ha usato la frase in una lettera al Direttore Giacinto Siciliano dopo che a San Vittore, qualche giorno fa, la proiezione della Prima della Scala in diretta su maxischermo (la Prima diffusa, come avviene da alcuni anni in alcuni Istituti penali) è stata interrotta dopo due ore, per il suicidio di un egiziano, poi deceduto in ospedale, in carcere da due giorni. Niente di nuovo. Nordio ha ripreso la stessa frase usata da Mario Draghi in visita a Caserta dopo il triste episodio dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ad opera di agenti il 6 aprile 2020. Ma solo qualche mese fa, a luglio, Nordio si era recato a Torino, dopo il suicidio di due donne in sole 24 ore (una a seguito del prolungato rifiuto di cibo e acqua) nel carcere di Lorusso e Cutugno, e aveva detto: “Non esiste mistero più insondabile della mente umana quando cerca soluzioni estreme”. Il Ministro della Giustizia ha cambiato idea?
Sarebbe utile saperlo. Nel frattempo, davvero vogliamo restare fermi e attendere – come ci ricorda Luigi Ferrarella sul Corriere (9 dicembre) elencando un po’ di numeri- che a questo ritmo, che oscilla da 300 a 700 detenuti in più al mese, le carceri arriveranno in un anno ai 66.000 ristretti, la cifra che nel 2013 portò la Corte Europea a condannare il nostro paese per trattamenti inumani e degradanti, contrari all’art. 3 della Convenzione CEDU? Alle sanzioni della famosa “sentenza Torreggiani”, uno spartiacque della storia penitenziaria, si pose allora rimedio con una serie di misure che ci fecero rientrare (almeno se ne comprese l’importanza politica e di civiltà) nei parametri di umanità minima, richiesti per la detenzione. Primo fra tutti lo spazio vitale (3 metri quadri), che se viene meno equivale a condizione disumana. Ma gli anni passano.
Un decennio dopo quella sentenza pilota, oggi sono in molti a dire che il carcere è tornato indietro. Dichiarazioni che vengono dagli avvocati delle Camere Penali, dai Garanti di regioni (“questo scempio della dignità umana, delle leggi e del diritto” aveva scritto la Garante sarda Irene Testa in una lettera al Presidente Mattarella lo scorso luglio), da chi ha provato, nelle istituzioni e come parte di queste, a far funzionare il sistema con la “buona amministrazione” e a lavorare non con la sola narrazione del fiore all’occhiello (Bollate carcere senza sbarre, per esempio), ma avendo a mente un progetto e una visione d’insieme dell’intero settore, se non per il futuro, almeno per il giorno dopo. Perché sono i progetti che danno speranza. Oggi, invece, la politica ha scelto di riportare il carcere dalla speranza alla paura. Senza visioni e senza progetti. Paura nella solitudine e nell’isolamento, con il ripristino in larga parte del regime delle “celle chiuse”. Paura per i detenuti di esprimere richieste in una forma o di opporsi a richieste, perché il confine con cosa è considerato rivolta è diventato più sottile (così nell’ultimo Pacchetto sicurezza emanato dal Governo, a proposito del reato di rivolta). Paura di essere abbandonati dallo Stato, nel silenzio di uno sciopero della fame che non vale più come denuncia, grido d’aiuto, ma come atto personale e privato, o “mistero della mente” davanti al quale chi tiene in custodia finisce con il custodire non la vita (anche quella di chi sbaglia è una vita che merita nuove opportunità, dopo gli errori), ma la fine della vita.
Numeri a parte (60.117 detenuti), non è nei numeri del sistema carcere il “quasi punto di rottura”, sempre per usare un’espressione del giornalista Luigi Ferrarella. Anzi, proprio la stampa è ora chiamata in causa e farebbe bene ad alzare l’asticella dell’allarme sulla situazione, malgrado (lo sappiamo bene) il poco consenso che genera. Invece, in quel quasi, viene piuttosto da leggere una timidezza o un supino concedere tempo, o peggio - non lo vorremmo - l’ennesima sottovalutazione della malattia grave. Oppure, forse il malato grave è il giornalismo del quasi. Il giornalismo che usa la penna come denuncia vera, lo fa mettendo già il fiato sul collo.