Il carcere di domani che vorremmo già oggi

21 Jun 2024 Antonio Gelardi* . Foto archivio Voci di dentro

Il dramma dei suicidi e la ennesima generale situazione di disagio che attraversa il mondo delle carceri richiede una riflessione sui possibili, necessari, interventi di contrasto rispetto alle criticità che attraversano la quotidianità penitenziaria, anche cercando di immaginare scenari del tutto diversi da quelli attuali.
È in proposito di estremo interesse, quindi da riprendere, la riflessione espressa dall’ex Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il Presidente Carlo Renoldi a conclusione del suo mandato con una nota pubblicata nella rivista Sistema penale e che qui riporto: “Il carcere di domani, accanto all’area, numericamente minoritaria, delle persone di più elevato spessore criminale, rispetto a cui è irrinunciabile la presenza negli spazi detentivi del personale di polizia, non potrà che evolversi nella direzione, comune al resto d’Europa, di una polizia che “sta fuori dal carcere”, la quale, accanto al controllo dei soggetti in misura alternativa, dovrà svolgere compiti di tutela della sicurezza perimetrale, di controllo dell’ingresso di oggetti pericolosi e di intervento in caso di violenze all’interno degli spazi detentivi; spazi ove dovrà essere invece chiamato a operare personale non di polizia, altamente qualificato e addestrato non tanto, come oggi, sul piano delle competenze giuridiche, quanto della relazione con le persone. Perché il carcere è, soprattutto, il luogo della relazione umana”.

Verrebbe da dire che la distanza dall’attuale realtà è tale da fare pensare ad un mero wishful thinking, e tuttavia, l’autorevolezza della fonte ed il richiamo a ciò che avviene nel “resto d’Europa” induce ad approfondire l’ipotesi, riprendendo fra l’altro i temi connessi della sorveglianza dinamica e del regime aperto a lungo esplorati nel periodo immediatamente successivo alla sentenza pilota della CEDU e solo parzialmente sperimentati.

Altro documento da considerare in premessa è quello formulato di recente dalla conferenza territoriale dei garanti -organismo che sta assumendo una funzione molto dinamica- che con riferimento ai suicidi sottolinea che sono soprattutto le fasce più deboli ad essere sopraffatte e “schiacciate”; i suicidi e gli atti di autolesionismo in carcere coinvolgono persone vulnerabili, detenuti che hanno commesso reati di bassa o media gravità, alla prima esperienza di detenzione ovvero in procinto di essere dimessi, ma senza reti familiari o sociali che possano favorirne il reinserimento. Lo dicono i numeri, come sottolinea il documento: “il 64% delle persone che si sono tolte la vita negli ultimi due anni aveva commesso reati contro il patrimonio; il 60% dei suicidi si è verificato nei primi sei mesi di detenzione; il 40 % di suicidi si è consumato oltre i primi sei mesi, con una percentuale elevata nell’ultimo periodo di detenzione e l’interessamento di molti detenuti senza fissa dimora. Il circuito più interessato dai suicidi è, non a caso, quello di “media sicurezza”. Le persone con patologie psichiatriche che si sono tolte la vita sono meno del 10%”.
Allora va detto che sembra sbagliato parlare di emergenza rispetto ad una situazione che va avanti da decenni, aggravandosi, e che la questione carceraria, trascurata in modo ahimè bipartisan, richiede lo sforzo di pensare in grande, cercando di immaginare un modello realmente diverso.
Alcuni punti di riflessione sembrano allora essere i seguenti:

La composizione del personale
E’ certamente vero che vi sono grosse carenze numeriche che riguardano la polizia penitenziaria, dovute da un lato a vuoti nell’organico previsto, dall’altro a riduzioni nell’organico stesso. Va tuttavia considerato che il rapporto fra numero di detenuti e numero di unità di polizia penitenziaria è più favorevole in Italia ( 1,8 ) che rispetto alla media europea ( 2,6 ). Va detto che paragonare sistemi diversi è una operazione non semplice e da fare con estrema cautela, e tuttavia lo scarto viene colto in modo significativo quando si osserva un altro dato, la percentuale di poliziotti rispetto al resto del personale, è in Italia del 83,6%, nel resto d’Europa del 69,3 %. Per uscire dalla freddezza ed astrattezza dei dati percentuali basti comunque ricordare che, nelle carceri non operano psicologi di ruolo, che la presenza degli psichiatri varia da Asl ad Asl e comunque la presenza ed il numero degli accessi risente della generale crisi del sistema sanitario pubblico, che il numero degli educatori (funzionari giuridico pedagogici) è largamente sottodimensionato. Secondo i dati riportati dal Dap, il rapporto, a conclusione dell’immissione in servizio di 220 funzionari giuridico pedagogici sarebbe stato di un funzionario ogni 65 detenuti. Dato tuttavia stimato con la presenza di 55.682 detenuti rispetto ai 61,297 presenti al 30 aprile 2024, già di per sé largamente insufficiente, ma che lo diventa ancor di più se si richiede come indicato dalle direttive Dap, la presenza costante in tutti gli ambienti dell’istituto e lungo tutta la giornata. 
E’ quindi evidente che non vi sono forze sufficienti per compiere tutti gli interventi necessari e per arginare le situazioni di disagio, che spesso sono alla base degli atti di intemperanza e dei comportamenti che mettono a repentaglio l’ordine e la sicurezza negli istituti o che comunque richiedono l’intervento del personale dell’area sicurezza. Non si vuole qui dire che non va incrementato il numero di unità di polizia penitenziaria, ma piuttosto riflettere sul fatto che lo squilibrio prima indicato con i dati percentuali, che oggi penalizza fortemente il personale non di polizia, va ridotto e che nel bilanciamento di interessi che sta alla base dell’utilizzo delle risorse, occorre tener conto adeguatamente di questo. E si badi bene che queste considerazioni non vanno ad intaccare la funzione ed il valore dell’attività della polizia penitenziaria, che in mancanza di personale addetto al sostegno ed al trattamento, spesso finisce per svolgere, impropriamente una funzione di supplenza (nel mio piccolo da direttore usavo dire, datemi trenta agenti in meno, e dieci educatori in più, e garantirò sicurezza e trattamento meglio. Mi accontentarono a metà, levando trenta e via via più agenti fino ad arrivare ad una diminuzione di quasi cento unità). Meno celere e meno consistente fu l’assegnazione di educatori.

I passi indietro nel regime
Come già accennato in premessa e come già detto in altri interventi pubblicati su questa rivista, a seguito della condanna CEDU del 2013 venne avviato e portato a termine un intervento volto a realizzare in quasi tutti gli istituti un regime tendenzialmente aperto, fissando tempi e percentuali da raggiungere. Ciò consentì
unitamente ad altre misure, di chiudere il contenzioso con la CEDU. Tale regime è stato sottoposto da parte degli attori più retrivi del mondo penitenziario a un tiro ad alzo zero durato anni, attribuendo ad esso ed alla sorveglianza dinamica la responsabilità di ogni evento critico ed al fatto che le persone detenute fossero libere di stare nei corridoi delle sezioni, poco importa se gli eventi critici si verificavano in realtà fuori dalle sezioni, ad esempio nei cortili  passeggio, in infermeria o altrove.
Venuta meno la spinta legata alla sentenza pilota della CEDU la sperimentazione ha subito un freno e si è arrivati infine, verosimilmente anche in conseguenza di quelle critiche indistinte, alla circolare del 2022 che in sostanza ha contribuito a portare ad una sensibile riduzione del numero delle persone ammesse al regime più avanzato, ossia più aperto. Si badi che la premessa da cui partiva la circolare era sostanzialmente corretta, perché un regime aperto deve consistere nella permanenza fuori dalle camere e dalle sezioni per lo svolgimento di attività e non lo stazionamento nei corridoi. Tuttavia ciò richiede un ventaglio di attività molto ampio, una diversa architettura delle carceri, e, non da ultimo, una funzione di progettazione, programmazione e di stimolo da parte degli operatori, che devono essere, anche per questo, presenti in numero adeguato.
Secondo l’analisi puntale e dettagliata del 18 luglio 2022 del Garante nazionale pro tempore Professor Palma, il numero di persone presenti nelle sezioni “aperte” è passato dalle 32.643 nel 2019 a 12.757 nel 2023 (con una diminuzione di circa il 42%). Nello stesso periodo, hanno di converso avuto, un considerevole aumento le persone detenute assegnate nelle sezioni cosiddette a custodia chiusa che sono passate dalle 17.715 del 2019 alle 23.387 del 2023. Vi è stato quindi, ancora secondo il documento dei garanti territoriali, il ritorno sostanzialmente al regime della custodia chiusa per la maggior parte dei detenuti che si trova a trascorrere la maggior parte del tempo in celle chiuse. E ciò contribuisce ad acuire il clima di tensione all’interno degli spazi detentivi, sempre più affollati. Situazione ulteriormente aggravata dal fatto che l’allocazione presso una sezione a trattamento intensificato, più rispettosa del modello costituzionale di esecuzione della pena (art. 27 Cost) e delle raccomandazioni contenute nelle regole penitenziarie europee, e che, quindi, “dovrebbe essere la regola”, sembra invece oggi assumere un carattere premiale ed eccezionale.

In conclusione, il regime aperto diversamente da ciò che riguarda la composizione del personale, non richiede una rivoluzione di sistema; basterebbe riprendere l’azione svolta negli anni 2013-2014 e seguenti compiendo ragionevolmente un esame critico, ma senza pregiudizio, dell’esperienza del regime aperto e delle più generali aperture che caratterizzarono la vita detentiva; tenendo comunque conto della struttura degli istituti, della tipologia delle persone detenute, prevedendo la permanenza di sezioni chiuse per persone non idonee o che non gradiscano un regime aperto, agendo col sistema del try and see ispirato ad un principio di cautela e di progressività, ma tenendo presente l’obiettivo finale di fare del sistema aperto la regola tendenziale e non un sistema applicato in misura minoritaria, come appare oggi, stante l’analisi del garante nazionale. In questo quadro le “celle” comunque aperte, sistema certo non nuovo, dovrebbe costituire una modalità della vita detentiva non ideale, ma migliore comunque della permanenza in cella per buona parte della giornata.
Gli interventi sul regime, o la prefigurazione di questi, sono comunque necessari perché una minore necessità di presenza e di intervento della polizia penitenziaria è ipotizzabile solo realizzando delle aperture ed un sistema dinamico. Per semplificare, un carcere pieno di cancelli non necessari, un sistema di accompagnamenti generalizzato, una sorveglianza a uomo anziché a zona, sarà e resterà un carcere nel quale il personale di polizia sarà sempre insufficiente ed adibito a compiti prevalentemente routinari e sarà difficile sfruttare gli spazi per le attività ove vi siano.
È da vedersi se, la crisi di sistema che attraversa il mondo del carcere sarà affrontata avendo presenti le regole europee (sorveglianza dinamica) ed i sistemi europei (composizione del personale di cui si è detto), o con ritorni al passato. 
*Già dirigente penitenziario

L'articolo è pubblicato sul numero 52 di Voci di dentro