Quando Bari disse no alla mafia. Michele Fazio: una storia di coraggio, impegno e riparazione
07 Jun 2024 Antonella La MorgiaA morire doveva essere uno qualsiasi, uno del clan degli Strisciuglio, per vendicare la morte di un membro della famiglia rivale, quella del boss Capriati. Bari: anno 2001. Le famiglie mafiose si sono impossessate da anni di pezzi e quartieri della città. Mietono sangue e paura. E, naturalmente, con la paura c’è il silenzio, l’omertà della gente che nega o si fa “i fatti propri”, chiude le finestre, sa ma non dice.
Nel centro storico di Bari vecchia vivono e convivono brave persone e capi banda, con parenti e affiliati, alcuni giovanissimi, manovalanza che abbraccia la criminalità - estorsioni, scippi, rapine, usura e soprattutto spaccio di droga - la forza di un sistema che manovra persone e soldi, molti soldi, e che si proietta oltre confine, da dove il grande smercio di droga parte, come il Sudamerica e l’Albania. Non mancano riti di iniziazione che fanno presa sui giovanissimi proseliti e culto della vendetta. A Bari non più estesa di altrove, non più invisibile e ramificata che al Nord la mafia evolve, si mimetizza e si infiltra nei grandi affari: meno edilizia e più traffici informatici, meno sangue e criminalità sparsa, ma sempre tanto riciclaggio in attività apparentemente legali. E naturalmente, ancora droga: finché droga, mafia e denaro saranno legati dalla convenienza in una città che però, da quegli anni, proprio a partire dalla morte di Michele Fazio - un bravo ragazzo ucciso per sbaglio - contro la mafia ci si è messa e ha voluto girare pagina. Con professionisti, istituzioni, scuole, cittadini, associazioni e tantissima brava gente, Bari ha voluto ribellarsi a quel sistema.
Ma torniamo al 2001. È una sera d’estate a casa dei Fazio: papà Giuseppe, per tutti Pinuccio, è ferroviere ed è spesso fuori in viaggio sui treni, ma quella sera lui è con la famiglia. Mamma Lella, come tante mamme, guarda il figlio vestirsi bene e uscire per una passeggiata dopo il turno di lavoro. Ha solo 15 anni Michele, e fa il cameriere in un bar, il pomeriggio va a scuola, perché ha deciso di aiutare i suoi e non essere di peso. Al bancone, quando lavora, serve il caffè a tante persone del posto e sogna di fare il carabiniere. Un bravo ragazzo, “o uagnon bun”, che di lì a poco, tornando dal lungomare, dov’è stato con gli amici, perderà la vita, ucciso dai colpi sparati da sicari del clan Capriati, a pochi passi da casa sua. Vittima innocente di mafia.
Pinuccio e Lella avevano sentito gli spari. Forti. Meglio non aprire le finestre, sperare che fossero i botti e i fuochi d’artificio con cui si usa accompagnare le feste e i compleanni dalle loro parti. Ma dal bagno, la figlia piccola Rachele guarda in strada. E vede. Vede Michele riverso a terra. È l’inizio di una tragedia, di un dolore che chiede “Perché nostro figlio”, “Chi sa chi è stato parli”, perché chi ha ucciso Michele girava a viso scoperto e si sa che qualcuno ha visto. Invece non parla nessuno. Le indagini si concludono con l’archiviazione e mamma Lella gira le case con il suo dolore e bussa alle porte per chiedere di parlare. Le parole devono cambiare una città. Le parole… bastano le parole che a distanza di tempo, due anni, arrivano. Arriva, infatti, la confessione di un ragazzo che conosceva lo stesso Michele e si riapre il caso dell’omicidio Fazio, anche grazie all’avvocato di famiglia Michele Laforgia che non smette di sostenere i genitori.
Li sosterrà a lungo, durante i processi a carico dei responsabili, boss mandanti ed esecutori (uno era deceduto in un regolamento di conti), condannati nel 2005; tempo dopo viene condannato anche il ragazzo, allora minorenne, che guidava lo scooter da cui erano partiti i colpi.
Michele non era la persona sbagliata a trovarsi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato. Sbagliata è la mafia, sbagliato chi la copre, ed è proprio la città di Bari che dopo l’omicidio di Michele non ha avuto più voglia di coprire come prima i mafiosi vicini di casa. Le finestre dei quartieri storici hanno cominciato ad aprirsi. Oggi, Bari vecchia di giorno ospita viavai di giovani, turisti, tanta gente e di notte si anima con la movida. In strada sono in tanti i ragazzi, come Michele, a divertirsi. La preoccupazione è che, se vi sono periodi in cui aumentano le disuguaglianze sociali, le mafie possono sempre trovare un terreno privilegiato per proliferare, tornare a crescere, fare paura.
La storia di Pinuccio e Lella è stata una storia di rinascita e di impegno civile non solo per la coscienza di una città. Dice l’Avvocato Laforgia: “Ho detto a Pinuccio e Lella fin dall’inizio che per essere forti non avrebbero dovuto vivere il lutto chiusi in casa, ma farne un riscatto di Bari vecchia”. Quella Bari vecchia, all’indomani della tragedia, aveva raccolto i soldi dei commercianti, ma i soldi loro decisero di devolverli ad un’associazione che si occupava di reinserimento di ex detenuti. Ecco, da qui la storia di Pinuccio e Lella è la storia di chi riparte dalle persone e opera affinché altri giovani non si vendano alle mafie, altre finestre non restino chiuse.
Il finale è stato scritto cancellando l’odio con un’altra storia, che tocca, questa, oltre la loro testimonianza di legalità che continua ancora: dentro scuole, circoli, comunità, carceri, ovunque abbia senso far rivivere Michele e raccontare che a vincere sono stati sia lui che loro genitori, rimasti a vivere a Bari vecchia. Non ha vinto la mafia.
Scontati più di dieci anni e con altri anni di carcere da fare, uno del gruppo di commando, che si era mosso la notte dell’assassinio, scrive prima una, poi un’altra lettera di perdono a Pinuccio e Lella, i genitori di Michele, nel corso di un programma intramurario di sperimentazione riparativa promosso dalla direzione penitenziaria dell’istituto con una cooperativa di lunga esperienza nella mediazione.
Compreso il potenziale del gesto da parte dell’avvocato Laforgia, cosa altrettanto non usuale, e da lui favorito, avviene l’incontro tra i genitori di Michele e il detenuto, incontro preceduto da un accurato lavoro dei mediatori volto a verificare la sincerità della richiesta contenuta nella lettera, e dalla preparazione di Pinuccio e Lella, affinché si sentissero davvero pronti a ricevere da lui quella domanda di “perdono”.
Il dopo è la storia di un uomo che, dal carcere e dall’errore riconosciuto riparte, e dice: “Insegnerò a mio figlio una strada diversa dalla mia, quella strada sbagliata che mi ha portato qui”.
Una storia che commuove e dopo la commozione fa riflettere.
Se non vogliamo chiamarlo perdono, chiamiamolo un oltre, un attraversare la linea della separazione dall’altro che ha ferito non uno, due, una famiglia, ma tutta una comunità, ma con quella comunità torna poi a dialogare recuperandone i valori di convivenza e cittadinanza. Per sé, per suoi i figli. Per il domani.