Leggendo dell’introduzione del reato di rivolta in carcere prevista in uno dei disegni di legge contenuti nel pacchetto sicurezza predisposto dal governo nel novembre 2023, mi viene da ripensare, pescando fra i miei trascorsi professionali, ad un caso in cui un sindacalista enfatizzando un episodio disciplinare messo in atto da alcuni detenuti, presto risolto, divulgò la falsa notizia di una presunta e in realtà mai avvenuta rivolta in carcere.
In quel caso, contrariamente alle mie normali abitudini avviai un procedimento disciplinare, dal momento che la notizia riportata nei siti on line aveva causato allarme nelle istituzioni territoriali, fra i familiari dei detenuti e fra il personale non in servizio. Il procedimento, fra i pochissimi da me avviati, nel corso dell’attività di servizio, andò poi avanti e si concluse con una sanzione comminata dall’ufficio regionale. In proposito avevo argomentato sostenendo fra l’altro che un episodio di intemperanza non poteva essere assimilato ad un fatto di rivolta, termine questo riservato ad episodi ben più gravi.
Leggendo ora il testo dell’articolo notavo che, nella fattispecie della rivolta, rientrerebbero episodi quali “la resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti” venendone così dilatato l’ambito in modo tale da farvi rientrare anche comportamenti fin qui rientranti in un ambito disciplinare.
Ci si augura in proposito che nell’iter parlamentare vi sia una opportuna riflessione sul carattere irragionevole di una previsione che accosta comportamenti caratterizzati da resistenza passiva ad altri violenti, e tuttavia non si può non notare che l’approccio alla gestione dei conflitti, in questo caso in ambito detentivo, da parte dell’esecutivo, sia del tipo esclusivamente sanzionatorio, oltretutto in un momento in cui, come sottolineato dal garante nazionale operante in regime di prorogatio (1), viene lanciato l’allarme rispetto a suicidi, morti in carcere e problemi derivanti dal sovraffollamento e in un momento in cui vi è un acuirsi delle situazioni di disagio.
In altre riflessioni il Garante stesso, come altri osservatori, aveva rilevato che all’aumento di misure di comunità non ha corrisposto una diminuzione del numero delle persone detenute, per cui non sarebbe sufficiente per affrontare la crisi di sistema, in atto, fare appello al solo ricorso a tali misure, ma occorrerebbe da un lato un ripensamento del sistema penale, anche dal momento che i reati appaiono in linea generale fortemente in calo, e dall’altro una gestione attenta delle carceri.
Tornando quindi a ciò che concerne la gestione della quotidianità penitenziaria, in particolare a ciò che riguarda il tema della sicurezza negli istituti penitenziari, punto specificamente trattato nell’atto di indirizzo politico istituzionale per l’anno 2024 del Ministro della Giustizia, fermo restando la complessità del tema, si propongono alcune brevi considerazioni:
- In primo luogo va ricordato che il carcere è di per sé luogo di conflitto, dal momento che anche in condizioni ottimali, o comunque ben migliori di quelle attuali, il rapporto fra chi si trova privato della libertà e chi provvede alla gestione penitenziaria, presenta criticità, perché la persona detenuta tende ad identificare nel direttore e nel personale i soggetti che lo “rinchiudono” o comunque i responsabili di ogni disagio e di ogni disservizio. Da direttore mi è sempre pesata questa dinamica, ma non potevo e non posso che comprenderne le ragioni. Che vi siano dei conflitti non è quindi un accidente, ma una inevitabile criticità, da gestire.
- La gestione dei conflitti non può avere come unico obiettivo quello della tranquilla gestione del carcere forse realizzabile col mero metodo disciplinare o con i continui trasferimenti (sottolineo il forse e comunque me ne dissocio moralmente) ottenendosi un buon detenuto e, all’uscita un pessimo cittadino, molto peggiore di quando è entrato.
- Il problema della sicurezza negli istituti penitenziari non va certo minimizzato, tuttavia l’entità dei fenomeni va attentamente monitorata. Ho fatto all’inizio giusto un esempio di enfatizzazione, ma sembrerebbe che, in generale, questa tendenza sia talvolta presente nell’operato di alcuni attori del mondo penitenziario. Destano impressione in proposito le cronache di un episodio recente avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, relativo ad un episodio di protesta che avrebbe coinvolto, secondo una fonte sindacale 250 detenuti, che sarebbe avvenuto in forma violenta; invece, secondo il magistrato di sorveglianza subito intervenuto sul posto, protagonisti ne sarebbero stati 15 detenuti. Preciso che come direttore ho sempre ritenuto inaccettabile anche un solo caso di aggressione, o di comportamento violento, e tuttavia nel valutare, da parte di chi di competenza l’entità di un fenomeno, per trarne conseguenze occorre una precisa valutazione dell’entità e del numero effettivo dei singoli episodi. Il tema della sicurezza degli operatori è stato per anni portato avanti da parte di taluni, avendo per obiettivo l’eliminazione del regime aperto. In proposito sarebbe ora il caso di verificare se la sensibile riduzione delle sezioni “aperte” ha ridotto gli episodi di intolleranza o se al contrario abbia innalzato le tensioni e la conflittualità.
Ciò detto, occorre fare una riflessione: posto che vi è stata negli anni, in ambito penitenziario una sequela di interventi aventi carattere restrittivo, fra questi quelli volti a restringere la possibilità di accesso ai benefici penitenziari ( vedasi la più recente formulazione dell’articolo 4 bis della legge penitenziaria ), e quelli volti ad una accentuazione della “chiusura” del modello detentivo ( vedasi lo studio del Garante nazionale sull’applicazione sperimentale delle direttive per il circuito di media sicurezza datato 29 settembre 2023 che esprime valutazioni critiche sulla attuazione della circolare che aveva l’obiettivo di rilanciare un modello custodiale aperto), con risultati non pregevoli, è ragionevole ritenere che vadano riprese azioni non correzionali e dialogiche e in particolare volte ad un sistema riparativo per la gestione dei conflitti.
La base è data, come in altre materie, dalle regole europee, dagli studi svolti nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale, e, più recentemente dalla “Commissione Ruotolo”.
Le regole europee prevedono in particolare all’articolo 56 punto 1 che: “Le procedure disciplinari devono essere dei meccanismi di ultimo impiego. 2. Per quanto possibile, le autorità penitenziarie devono ricorrere a dei meccanismi di riparazione e di mediazione per risolvere le vertenze con i detenuti e le dispute fra questi ultimi.”
Per ciò che concerne le proposte elaborate negli Stati generali, esse erano contenute nel Tavolo 2 – Vita Detentiva. Responsabilizzazione, Proposta 4 Istituzione ufficio di mediazione, qui riportata:
“Si propone l'istituzione di un ufficio di mediazione composto da un mediatore professionale e da operatori volontari formati alla mediazione rivolto alla composizione dei conflitti intramurali (tra detenuti e tra detenuti e personale), tenuto conto che frequentemente le tensioni nascono dall'impossibilità o incapacità di dialogo.
L’ufficio di mediazione dovrebbe inoltre interagire con le commissioni di rappresentanza dei detenuti al momento della presentazione di richieste e reclami in ottemperanza a quanto previsto dall'art. 70.2 Reg. Pen. Europee ("Se la mediazione appare opportuna essa deve essere tentata come prima istanza").
In ossequio alle Regole penitenziarie europee -art. 56.2 (“meccanismi di riparazione e di mediazione per risolvere le controversie con i detenuti e le questioni fra questi ultimi”) – si devono prevedere forme di mediazione prima dell’avvio del procedimento disciplinare (che potrebbe rimanere nel frattempo sospeso). All’esito del processo di mediazione possono essere individuate forme riparative non punitive per ricomporre i rapporti interpersonali senza l’applicazione delle sanzioni disciplinari previste dall’ordinamento penitenziario.“.
I medesimi principi sono stati poi ripresi dalla Commissione Ruotolo (punto relativo alla proposta di modifica dell’articolo 81 del regolamento penitenziario, che si riporta): “Quando possibile, deve essere offerta al detenuto l’opportunità di accedere liberamente a un meccanismo di mediazione per riparare i conflitti alla base dell’infrazione commessa, ove anche la persona offesa acconsenta e, a prescindere dai contenuti riservati dell’incontro svolto, che avviene alla presenza di un mediatore, la serietà nell’impegno preso e gli esiti del percorso, anche sotto forma di concrete azioni riparatorie, possono essere valutati dal magistrato di sorveglianza in sede di concessione della liberazione anticipata, quali segnali di partecipazione all’opera rieducativa”. Ed inoltre (punto relativo alla modifica dell’articolo 80 del regolamento citato, che si riporta). L’organo che irroga la sanzione può, su richiesta dell’interessato, commutarla in una prestazione in favore della comunità penitenziaria.
In conclusione si precisa che è evidente che le proposte qui riprese sono molto distanti dagli attuali scenari. E tuttavia si ritiene opportuno riprenderle e rammentare che vi è stata, nella materia esaminata una attenta elaborazione protratta negli anni che sarebbe opportuno non disperdere. Essa si basa su una filosofia molto diversa da quella correzionale (di cui è lecito dubitarne anche l’efficacia oltre che la compatibilità costituzionale) e su un approccio riparativo molto ben esemplificato nella parola “rammendare".
Rammendare. E’ pressoché impossibile che questa parola non rievochi l’immagine di una figura, quasi sempre anziana, intenta a ricucire qualcosa con ago e filo. Richiama il gesto di riparare con cura e precisione il punto in cui per usura o per trauma, si è verificato uno strappo. Il rammendo, intrecciando abilmente i fili, ripristina la trama di un tessuto. Rammendare è una parola magica, descrive l’arte di rimediare ad una lacerazione. Proviene da ammendare, ma il suo senso è più sublime. Certamente si può fare ammenda a partire dal riconoscimento del danno provocato agli altri, e pertanto vi è un forte richiamo all’assunzione di responsabilità, Ben più di questo, il rammendo descrive l’azione di impegnarsi a ricucire attivamente e volitivamente uno strappo, impiegando tempo e dedizione. L’arte del rammendare non sta nel togliere l’errore exmendum quanto piuttosto nel correggerlo, cioè ripararlo senza cancellarlo. Nel segno che si scorge, ancorché minimo quel valore del rammendo, esso ricostruisce conservando la storia, vincendo con pazienza abilità e benevolenza l’ineluttabilità e la vergogna, unisce con quel filo della dignità un prima ed un dopo ripristinando l’impero di qualcosa. Rammendare è esercitare la cura, vedere una sofferenza dell’anima e provare il desiderio di porvi rimedio anche a prescindere dell’essere responsabili di quel dolore: è il contrario dell’indifferenza, rammendare richiede infinita compassione, l’unico modo per accostarsi alle ferite di una vita. Rammendare è esercizio di umanità.
Antonio Gelardi già Direttore penitenziario
L'artcolo è stato pubblicato sul numero 51 della rivista Voci di dentro
Dello stesso autore Leggi pure sul N 49 pp 24.25 "Occorre riprendere e attuare le proposte della Commissione Ruotolo"
(1) Questo articolo è stato scritto negli ultimi mesi di permanenza in carica del Garante Mauro Palma.