“Nodo alla gola”: è questo il titolo del XX° Rapporto annuale di Antigone sulle carceri italiane, presentato oggi a Roma. È un nodo alla gola quello che tante, troppe persone detenute hanno deciso di stringersi intorno al collo per sfuggire alla totale assenza di speranza che si vive nelle carceri. È un nodo alla gola quello con cui l'intero sistema sta stritolando se stesso, incapace di rispondere al proprio mandato costituzionale.
Il quadro che emerge dal Rapporto di Antigone, frutto dell'osservazione diretta del sistema penitenziario che l'associazione porta avanti da oltre venticinque anni attraverso continue visite di monitoraggio alle carceri, restituisce una situazione drammatica. Il Rapporto contiene al proprio interno un dossier che fa il punto sulla tragedia dei suicidi in detenzione. Sono stati almeno cento tra il 2023 ei primi mesi del 2024. Almeno trenta nel solo inizio di anno in corso, uno ogni tre giorni e mezzo. Almeno, perché di altre morti non è del tutto chiara la causa. Un numero impressionante, ben superiore a quello corrispondente del 2022, l'anno tragico per i suicidi in cella. Le biografie di coloro che hanno scelto di togliersi la vita ci mostrano situazioni di estrema marginalità sociale: un alto numero di detenuti stranieri, trascorsi di tossicodipendenza, disagi psichiatrici, assenza di domicilio. La fascia di età più rappresentata è quella tra i 30 ei 39 anni. Giovani, spesso giovanissimi. Come il ragazzo che si è ucciso nel carcere di Teramo il giorno del suo ventunesimo compleanno, il 13 marzo 2024.
In molti erano entrati da pochi giorni in custodia cautelare. L'impatto con il carcere sa essere traumatico. Bisognerebbe potenziare le attenzioni, le cure, le prese in carico. Invece le sezioni per nuovi giunti sono spesso le peggiori dell'istituto. Celle fatiscenti e sempre chiuse, dove la persona detenuta è abbandonata alla sola compagnia delle proprie angosce.
Ma c'è anche chi sceglie di uccidersi pochi giorni o poche settimane dalla fine della detenzione. Il dossier di Antigone ne conta almeno quattordici . Persone cui l'istituzione non è stata in grado di far intravedere alcuna prospettiva. E allora il rientro in società fa soltanto paura. Persone portatrici di disagio sociale che non andrebbero gestite attraverso politiche penali. Eppure sempre di più lo strumento carcerario viene utilizzato per rinchiudere chi è portatore di tutti quei problemi per i quali non vogliamo investire risorse e attenzioni. Il carcere è un grande selettore di disperazione: seleziona le persone più disperate, le chiusura in celle sovraffollate, le rende anonime, prive di ogni possibilità di futuro, di lavoro, di relazioni sociali. L'affollamento e il poco personale fa sì che questa disperazione sia quasi impossibile da intercettare e da prendere in carico. N on c'è da stupirsi che dentro ci si uccida diciotto volte più che fuori.
L'attuale governo, più di ogni altro nel passato, ha contribuito a questo stato di cose. Introduzione di nuovi reati, inasprimento delle pene per reati già esistenti, interventi normativi volti a indurire risposte amministrative e fintamente preventive nelle periferie urbane. L'inasprimento populistico del volto della giustizia alla ricerca di facile consenso si scaglia inevitabilmente contro la piccola criminalità di strada, quella non certo dei più pericolosi bensì dei più marginali e disperati. Quelli che poi in carcere si uccidono.
Si pensa alla normativa sulle droghe, paradigmatica per l'enorme peso che ha sulla penalità italiana. Una normativa resa più dura dal cd. 'decreto Caivano', in particolare per quanto riguarda i cosiddetti fatti di lieve entità, che coinvolgono tante persone tossicodipendenti che hanno a che fare solo in via occasionale con il piccolo spaccio. Dal Rapporto di Antigone emerge che oltre 20.500 persone sono in carcere per reati connessi alla droga. Tra il 2022 e il 2023 si ha avuto un incremento pari al 6,35%.
Nel corso del 2023 il numero dei detenuti è cresciuto a un ritmo medio di 331 unità al mese. Di questo passo non manca molto per raggiungere le cifre che nel 2013 valsero all’Italia la condanna da parte della Corte di Strasburgo. Al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute. La capienza ufficiale del sistema penitenziario era pari a 51.178 posti, che scende come minimo di 2.500 unità se si considerano i posti al monento non disponibili per manutenzione. Il tasso effettivo di affollamento carcerario è quindi pari o superiore al 125% a livello nazionale. Esso tuttavia non è omogeneo. In alcuni istituti è enormemente più elevato. Come a Brescia Canton Monbello, dove le presenze sono più del doppio dei posti, per un tasso di affollamento del 209,3%. Ciò significa che dove dovrebbero vivere cento detenuti ne vivono invece 209. Corpi ammassati, senza alcuna possibilità di organizzare attività significative e di riempire il periodo di detenzione di un minimo di senso. Ma Brescia non costituisce un caso isolato. Da nord a sud, troviamo a Lodi un tasso di affollamento del 200%, a Foggia del 195,6%, a Taranto del 184,8%, a Roma Regina Coeli del 181,8%, a Varese del 179,2%, a Udine del 179%. In ben 39 istituti in Italia si supera il 150%.
Sovraffollamento significa innanzi tutto mancanza di spazio fisico. Nelle nostre visite abbiamo incontrato celle nelle quali chi dormiva sulla terza branda di un letto a castello sfiorava col naso il soffitto, nelle quali si doveva fare i turni per alzarsi in piedi, nelle quali non vi era un minimo di privacy neanche per leggere un libro. Ma sovraffollamento significa anche molto altro. Significa che un sistema pensato per un certo numero di persone deve farsi carico di un numero molto più alto: nel lavoro (in carcere del tutto insufficiente), nella formazione professionale (ormai quasi inesistente), nell’istruzione (dannosamente poco valorizzata dall’istituzione), nell’assistenza sanitaria (drammaticamente carente), nell’attenzione che è capace di dare al singolo percorso di vita (la cui inadeguatezza è troppo spesso alla radice di tragici gesti estremi).
Inutile continuare a raccontare la bugia della costruzione di nuove carceri, come il governo non perde occasione di fare. I dati riportati da Antigone mostrano che nessun piano di edilizia penitenziaria può essere realistico. Per costruire un carcere ci vogliono infatti mediamente dieci anni. Il costo medio di costruzione di un istituto con quattrocento posti è di circa 30 milioni di euro. Visti i numeri attuali della popolazione detenuta, servirebbero circa 40 nuovi e carceri, per una cifra di un miliardo e 200 milioni di euro . Cui vanno aggiunti i fondi per l'assunzione del nuovo personale, vale a dire ulteriori quattro miliardi di annui circa.
La storia ci ha insegnato che non è questa la strada da percorrere. Sappiamo bene che più posti si creano e più facilmente si riempiono. Vi è solo un modo per far rientrare il carcere nella legalità: quello di effettuare di meno. Vanno usa meglio le misure alternative. Oggi in carcere, come emerge dal Rapporto, vi sono circa 22 mila persone che devono scontare un residuo di pena sotto i tre anni, molte delle quali potrebbero accedere a una misura esterna. Chi è in misura alternativa costa in media 50 euro al giorno di fondi pubblici, mentre chi è detenuto in carcere ne costa circa tre volte tanto . Per non parlare del guadagno in termini di sicurezza collettiva, visto l'abbattimento nel tasso di recidiva che si riscontra tra coloro che hanno usufruito di misure alternative.
Ma soprattutto, non possiamo pensare di usare il carcere per disfarci di tutti quei problemi che andrebbero affrontati con politiche ben differenti dalle politiche penali e penitenziarie. Una società democratica dovrebbe seriamente ripensare il ruolo delle proprie galere. Ma purtroppo non è questa la fase storica nella quale possiamo sperare che questo accada.
*coordinatrice nazionale Antigone