Carcere. La storia di Patricia, ennesima cronaca di una morte annunciata

24 Jan 2025 Claudio Bottan vatican news

Una foto dello scorso marzo la ritrae accanto a Papa Francesco quando il pontefice ha celebrato la Messa in Coena Domini nel penitenziario femminile di Rebibbia dove ha lavato i piedi a dodici detenute.

“Il Papa consola una donna in lacrime", scriveva Vatican news raccontando l’incontro di Bergoglio con le donne recluse. "Prima di entrare in infermeria, dove avrebbe salutato quelle che non avevano potuto partecipare alla celebrazione, un fuori programma: una donna di origine africana, retta da due assistenti, urla e scoppia in un pianto incontrollabile. Già durante la Messa aveva manifestato il suo disagio. “Soffro troppo, non ce la faccio più, soffro tanto”, dice tra i singhiozzi a Papa Francesco che la accarezza, prova a tranquillizzarla, poi le poggia una mano sopra la fronte e le assicura preghiere, invitando anche lei a pregare”.

Quella donna sofferente si chiamava Patricia Nike, nigeriana di 54 anni. È arrivata al carcere Pagliarelli di Palermo in ambulanza lo scorso 8 gennaio, e lì è morta dopo appena quattro giorni dal suo ingresso a seguito di un trasferimento da Rebibbia femminile. Ne ha dato notizia Pino Apprendi, garante dei detenuti Palermo, chiedendosi quale fosse stata la logica del trasferimento dato che, dalle prime notizie, pare che la donna non avesse familiari in Sicilia. È da escludere anche l’ipotesi che la scelta dell’istituto palermitano sia stata determinata da una particolare eccellenza nell’ambito sanitario. Già in passato, infatti, lo stesso garante aveva più volte denunciato le gravi carenze nell’assistenza sanitaria al Pagliarelli, struttura che deve fare i conti con il sovraffollamento ormai strutturale che investe la maggior parte dei penitenziari italiani.

Non si conoscono ancora le cause precise di una morte così repentina, e nessuna informazione ufficiale è trapelata al momento sul decesso di Patricia. Una morte che non ha trovato spazio nemmeno tra gli “eventi critici” cui fa periodicamente riferimento il Dap quando si tratta di redigere statistiche. Da quanto Voci di dentro ha appreso da fonti istituzionali, pare che la donna fosse affetta da varie patologie, inclusa la positività all’Hiv, e fosse in terapia con metadone per la tossicodipendenza che aveva segnato profondamente la sua vita. Proprio per questo, qualche mese prima era stata richiesta la sospensione della pena per consentirle di curarsi adeguatamente; istanza rigettata in quanto, nonostante una condanna di poco più di due anni - a parere dell’ufficio di Sorveglianza - sarebbe stata adeguatamente assistita e curata a Rebibbia. Meno di un mese fa era stata dimessa dopo un ricovero e aveva fatto ritorno in cella.

Lo scorso mese di ottobre il Dap aveva disposto lo “sfollamento” di venti delle donne recluse a Rebibbia femminile, a cui è stato dato seguito a gennaio con trasferimenti in vari istituti della Penisola motivati da esigenze logistiche per lavori di ristrutturazione di una delle sezioni. Quali erano realmente le condizioni di salute di Patricia al momento del suo trasferimento al Pagliarelli? “C’è da augurarsi che quantomeno abbia potuto viaggiare in aereo e senza manette” aggiunge Apprendi. Già, non necessariamente con un Falcon di Stato ma in modo dignitoso date le condizioni di salute.

Al suo arrivo la donna è stata collocata in cella con altre tre detenute, ad una delle quali è stato assegnato il compito di assisterla come caregiver, “il piantone” nella terminologia carceraria, a cui viene riconosciuto un compenso per il lavoro svolto. Pare che avesse serie difficoltà di deambulazione, tanto che qualcuna tra le recluse del Pagliarelli l’ha notata muovere passi incerti appoggiata ad un girello.

Quali erano realmente le sue condizioni di salute durante la permanenza a Rebibbia femminile? E, quanto al trasferimento a Palermo, si è trattato di un’ordinaria operazione di “sfollamento” oppure di una scelta dettata da esigenze di gestione di quelle persone problematiche che, nel cinico gergo carcerario, vengono classificate come “incollocabili”? Gli ultimi tra gli ultimi, quelle persone affette da patologie psichiatriche, malate e tossicodipendenti che non dovrebbero trovarsi in carcere bensì curate nelle Rems e in strutture adeguate. Domande, queste, alle quali intende ottenere risposte la senatrice Ilaria Cucchi di AVS attraverso una formale richiesta di accesso agli atti, con l’obiettivo di fare chiarezza in una vicenda con molte opacità.

È l’ennesima storia di cui non si parla volentieri, una delle tante che passano di bocca in bocca, a cui infine danno voce coloro che il carcere lo conoscono e provano a cambiarlo mantenendo alta l’attenzione, esercitando quel diritto all’informazione “galeotta” che spesso si preferirebbe silenziare.

La trasparenza, d’altronde, non è propriamente una virtù dell’istituzione penitenziaria. Quell’apparato che dovrebbe essere un palazzo di vetro, fatica ad accettare il principio sacrosanto secondo il quale i diritti dell’individuo non sono automaticamente sospesi varcando la soglia del carcere. Diritto alla salute, all’affettività e perfino a una morte dignitosa, troppo spesso vengono calpestati assecondando le presunte esigenze di “ordine e sicurezza” tanto care al Governo.

“In carcere ci sono innanzitutto persone che hanno problemi di dipendenza problematica da sostanze stupefacenti, tossicodipendenti per intenderci, i casi psichiatrici, molti poveri, come i senza tetto o senza fissa dimora, e poi gli stranieri, quelli soprattutto che non hanno il permesso di soggiorno, che sono degli invisibili, che spesso commettono reati perché nessuno gli dà un lavoro” ripete come un mantra Rita Bernardini, Presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Gli invisibili, quelli di cui la società civile preferisce non sapere.

Anche della travagliata esistenza di Patricia e delle sue sofferenze sappiamo ben poco. D’altronde a chi potrebbe interessare di una delinquente, tossica, per giunta nera ed extracomunitaria? Giusto a Papa Francesco.