<p style="text-align:justify; margin-bottom:11px"><span style="font-size:12pt"><span style="line-height:115%"><span style="font-family:Aptos,sans-serif">Sono stata invitata a scrivere su una rivista che “promuove la cultura della solidarietà e il reinserimento sociale delle persone in stato di disagio ed ex-detenuti”. L’invito mi è stato rivolto da un ex detenuto, scrittore e giornalista, verso cui sento un’empatia straordinaria, dovuta alla sincerità pulita con cui espone fatti, numeri, realtà, più che idee. Sono onorata che abbia chiesto a me, ex operatrice del penitenziario, a una che sta “dall’altra parte”, di esprimere qualcosa sull’argomento. Mi è necessaria però una premessa: pur apprezzando tutti coloro che si battono per i diritti umani, sento in essi il pericolo di farsi vincere dalla rabbia e di entrare in conflitto con chi sta dalla parte opposta. Non che mi intimorisca la lotta, ma il percorso di vita fatto me lo vieta. Oggi, arrivo alla conclusione di dover evitare il più possibile il conflitto delle parti. </span></span></span></p>
<p style="text-align:justify; margin-bottom:11px"><span style="font-size:12pt"><span style="line-height:115%"><span style="font-family:Aptos,sans-serif">Ho camminato per oltre tre decenni nei corridoi semibui delle patrie galere e ho visto il dolore materializzarsi sui corpi senza distinzione di età, sesso, ruolo; chiunque entrava a far parte di quel mondo chiuso soffriva in misura più o meno ampia lo stesso dolore. Ci entrai per lavoro a 25 anni. Non dimentico quel tanfo tipico che si cristallizzava al gelo invernale, mai stiepidito dall’unica stufa a carbone al piano terra, che con la sua prolunga di metallo verso i piani superiori pretendeva di allungare il calore, che invece diminuiva man mano che la razione giornaliera di carbone concessa si consumava. Non dimentico le mani, a decine, intorno a quel tubo, mani che non avevano bisogno di un volto o di una divisa di riconoscimento; avevano tutte lo stesso identico freddo. Capii subito questa uguaglianza senza bisogno di studiare su testi di pedagogia penitenziaria, che allora non esistevano. </span></span></span></p>
<p style="text-align:justify; margin-bottom:11px"><span style="font-size:12pt"><span style="line-height:115%"><span style="font-family:Aptos,sans-serif">Lavorare in carcere era uno stigma; eravamo malvisti persino dalle sorelle Forze dell’Ordine: “Noi rischiamo la vita per acciuffarli e voi vi mettete a fare comunella con loro”. Ho accettato comunque un lavoro del genere, cercando di portare avanti con molto sforzo il dettato della nuova legge, entrata insieme a me a luglio del ’75. L’art.13 mi era particolarmente caro: “Nei confronti dei condannati e degli internati è prevista l’osservazione scientifica della personalità, per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale”. Una legge non basta a cambiare mentalità; il regno del male basta che sia chiuso a chiave e che tutta la sofferenza generata da esso, appallottolata e spinta a forza su brande a tre, quattro livelli, rimanga dentro i padiglioni delle carceri. Oggi non c’è più quella misera stufa a carbone e altre oscenità che non descrivo, ma ancora più di prima e tutta quanta la società non studia la causa o le cause del fenomeno in esame. </span></span></span></p>
<p style="text-align:justify; margin-bottom:11px"><span style="font-size:12pt"><span style="line-height:115%"><span style="font-family:Aptos,sans-serif">Che cos’è il male e perché c’è, non lo so, ma so che ha il suo lato positivo. È dal buio che ho apprezzato la luce, anche la più fioca, come il baluginare dell’alba, per esempio, dopo un turno di notte, io no in una cella, ma respirando assieme alle centinaia di bocche chiuse dietro gli spioncini che andavamo ad aprire a uno a uno. È lì che ho toccato con mano due aspetti fondamentali per la vita: la resilienza e la libertà. Senza saperlo, possiamo condurre una vita da prigionieri, in un carcere senza sbarre, ma anche senza sogni. Diversamente non avrei mai apprezzato tutte le sfumature di essa, che noi del mondo di fuori diamo molto per scontato. Può essere, come lo era a Rebibbia, un corridoio schiarito da tante finestre, da dove vedevi prati e alberi (rarità nelle altre carceri), ma quel corridoio non aveva mai la luminosità di quando superavi il cancello, l’ultimo, di acciaio pesante, che divideva il carcere dalla strada. Perché lì c’era il cielo aperto! E poi i rumori, la gente, i bambini, i fiori e il mare, e tutto insomma. Stare senza tutte queste cose è un’agonia silenziosa. Ti rimangono i passi controllati nella nave, sempre con gli stessi marinai, che incontri a prua e a poppa o sul ponte, ma dalla nave non si scende mai. </span></span></span></p>
<p style="text-align:justify; margin-bottom:11px"><span style="font-size:12pt"><span style="line-height:115%"><span style="font-family:Aptos,sans-serif">La riforma lentamente procedeva anche con l’onda anomala del terrorismo. Non c’è bisogno che io dica dell’innocenza di Moro, così come di un’oscura operaia, una mia collega, uccisa allo stesso modo, che aveva solo il torto di svolgere un lavoro ingrato quanto pericoloso. Sembrava che la mano violenta scegliesse proprio i più miti, i più concilianti. Una dottoressa di servizio per soccorrere soprattutto i malati di droga (altra grande onda a cui si era impreparati) fu fatta bersaglio, non alla tempia come la mia collega, ma nella bocca. E sopravvisse. Alcuni di noi ricevevano notizia di essere nelle liste dei prossimi “da processare”. Non so come io abbia potuto non farmi contagiare dall’odio e come sia stata capace di vincere la paura. Stranamente è successo. </span></span></span></p>
<p style="text-align:justify; margin-bottom:11px"><span style="font-size:12pt"><span style="line-height:115%"><span style="font-family:Aptos,sans-serif">Grazie all’ingresso in carcere della comunità libera, come dettava la legge, per molti detenuti iniziò tuttavia un altro modo di condurre la detenzione. Il ponte levatoio del castello una volta abbassato rendeva visibile una realtà dimenticata e creava un circuito a doppio senso; ogni possibilità di incontro con persone dall’esterno andava valorizzata come cosa libera e mezzo di crescita evolutiva! Evolvere, nel caso specifico, vuol dire trovare strade alternative a qualunque violenza. La nuova legge infatti venne studiata anche e soprattutto per arginare la violenza. È un lungo e difficile cammino. Forse è un’utopia, lo capisco. </span></span></span></p>
<p style="text-align:justify; margin-bottom:11px"><span style="font-size:12pt"><span style="line-height:115%"><span style="font-family:Aptos,sans-serif">A Rebibbia, per azione combinata di molti, detenuti portarono in scena Shakespeare, altri vinsero l’Orso d’oro di Berlino, alcuni tirarono calci al pallone nello stadio Olimpico. Altri davvero si imbarcarono su una nave, per essere accolti nell’Università di Sassari e da lì videro il mare! Chiamavo tutto questo “azioni di pace”, perché appena succedeva qualche episodio violento anche circoscritto, tutte le attività venivano richiuse. La pace era distensiva e poteva essere campo da arare. Come fuori, così dentro. In quegli anni io pure avevo disatteso una legge insieme ad altri emigrati da diversi paesi di Italia, convenuti in un sobborgo disabitato di Roma, per costruire abusivamente la casa. La condizione comune di necessità e di isolamento fece di tutti noi una comunità. La notizia liberante per ogni genere di esclusi è poter essere comunità positiva dentro la società, non contro. Ora che gli anni posano la loro polvere bianca su chi non può scrollarla più, osservo il frutto del consumismo: una crescita incontrollata che ha amplificato tutto, anche i bisogni, le armi, le crudeltà, le diversità e zombie con maschere dalla bocca ridente.</span></span></span></p>
<p style="text-align:justify; margin-bottom:11px"><span style="font-size:12pt"><span style="line-height:115%"><span style="font-family:Aptos,sans-serif"><i>*Era come se Rebibbia mi avesse stregato. Perché dentro c’era l’Uomo, tutto l’Uomo e nient’altro. Quel luogo di sopportazione enorme divenne, incredibilmente e con tutta la paura del Male, a poco a poco, chiave di comprensione della mia anima”.</i> Dal libro “Chiodi di inchiostro” di Patrizia Raspanti ed. Progetto Cultura.</span></span></span></p>
<p style="text-align:justify; margin-bottom:11px"> </p>