Nella meravigliosa cornice dell’Oratorio di San Filippo Neri, a Bologna, il 25 settembre c’è stata una rappresentazione molto intensa che ha visto la sua ‘prima’ nel carcere della Dozza, per volontà dell’autore del testo da cui è stato tratto lo spettacolo teatrale. Si tratta di Joseph & Bross, con la regia di Alessandro Berti, attore regista e drammaturgo, in scena con Francesco Mariuccia e Savì Manna. Il testo lo ha scritto Ignazio De Francesco, monaco dossettiano, islamologo, co-fondatore di Eduradio. Si chiama Giuseppe e i suoi fratelli, dal suo libro ‘Vivere senza la chiave’, Zikkaron Edizioni, una piccola casa editrice che pubblica testi preziosi.
La storia racconta di tre persone, Gadi, Salvo e Ahmad, che si sono trovati, non certo per scelta, nella stessa camera di pernottamento (così si chiamano le celle oggi) e subito si differenziano per cultura, lingua, credo, provenienza e anche reato. Costretti e ristretti in nove metri quadrati, tra l’attaccamento alle proprie tradizioni, famiglie, storie personali e la consapevolezza che cresce battuta dopo battuta che lì dentro, giocoforza, respirano la stessa aria, subiscono gli stessi odori, percorrono gli stessi piccoli spazi, condividono le stesse sofferenze facendosi coraggio l’uno con l’altro. Uomini con identità diverse alle quali si attaccano con la forza della disperazione, ma Gadi insinua il dubbio proprio sull’idea di identità. Quel lemma che definisce, restringe, limita, isola ma allo stesso modo rassicura, unisce i consanguinei, i ‘fratelli’, magari contro chi non è della stessa famiglia, etnia, cultura. De Francesco, nel dialogo con il pubblico, parla della necessità di una Costituzione della Terra, una nuova legge superiore a quella attuale che, nel nostro mondo che cambia velocemente, è ormai datata e infatti spezzetta, parcellizza, inquina e, soprattutto, non promuove la Pace.
Perché, dunque, la prima dello spettacolo in carcere? Per tanti motivi. Il primo è che ci troviamo in un microcosmo spesso precursore di cambiamenti sociali che in quell’ambiente si manifestano prima di realizzarsi all’esterno. È un incubatore nel quale c’è tutto il male, ma anche a pensarci tutto il bene, quello tra le persone che attraversano insieme un cammino difficile, spesso di espiazione, sempre di sofferenza.
La scrittrice Goliarda Sapienza, che ha conosciuto da ‘interna’ la reclusione e ci ha scritto un libro dal titolo “L’università di Rebibbia”, asseriva che il carcere è sempre stato e sempre sarà la febbre che rivela la malattia del corpo sociale. E non è forse così? Le comunità umane hanno una grande e ineludibile responsabilità, senza questo atto di coscienza i detenuti restano reati che camminano, predestinati lombrosiani che devono marcire in carcere, marchiati a vita, lontano dalle ‘persone per bene’, incapaci di rigenerazione, risocializzazione e una qualche forma di risarcimento nei confronti della comunità che hanno ferito. Tra l’altro, l’inasprimento delle pene anche nei confronti dei minori che affollano sempre di più anche le carceri per adulti, rappresenta un fallimento e una resa preferendo la soluzione più facile, che poi soluzione proprio non è. E se, come diceva Voltaire, la civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri, non ne usciamo certo bene.
Tornando a Joseph & Bross ad un certo punto Gavi dice: “… Ma una cosa ci accomuna: la chiave. Non abbiamo la chiave, la chiave è in mano ad altri. Il carcere alla fine è solo questo. Si tratta di imparare a vivere senza la chiave”. Ma vivere senza la chiave non è solo una condizione di chi vive in restrizione dietro le sbarre, è anche quella di chi non può lasciare il proprio paese, di chi vive nei campi profughi, nei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) o di chi vive recintato nella propria terra. L’autore ci ha raccontato di come si sia sentito ristretto ad Ain Arik, il villaggio in cui c’è una sede della Piccola Famiglia dell’Annunziata, situato a circa 6 km a nord-ovest di Ramallah con 1800 abitanti dei quali meno di un terzo sono cristiani e due terzi musulmani, mentre sulla sua testa passavano le bombe. È lì che è nato questo racconto, in quel ‘carcere’ da cui nessuno poteva uscire e dove, anzi, tante persone cercavano rifugio. La similitudine è presto fatta, le sbarre immateriali ci sono, la convivenza pacifica si può imparare – sull’esempio di Gadi, Salvo e Ahmad – la Costituzione della Terra è quanto mai necessaria, è ora di mettersi tutti insieme al lavoro e di ripensare a come vogliamo vivere e in che mondo.
* responsabile coordinamento e redazione Liberi dentro Eduradio&TV