Il carcere parola per parola

04 Oct 2024 federica delogu

Del carcere si sa sempre poco. È difficile pensarlo, immaginarlo. Sono pochissime le fotografie, tutte molto simili, che raccontano lunghi corridoi e braccia appoggiate, anonime, che sbucano da dietro le sbarre. Come se fosse tutto là.

Da sempre è un luogo di cui la società si dimentica. Non rientra nel mondo che si racconta ai bambini. Valentina Calderone e Marica Fantauzzi, nel libro Il carcere è un mondo di carta, edito da Momo Edizioni, con la prefazione di Giusi Palomba e la postfazione di Luigi Manconi, lo raccontano ad adolescenti e preadolescenti. Entrambe, in modi diversi, da anni si occupano di detenzione. Calderone, garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, il carcere lo vive quotidianamente, e Fantauzzi lo conosce bene anche attraverso il suo lavoro con i minori in pena alternativa.

Con un linguaggio chiaro, diretto e senza retorica, le autrici ci raccontano questo mondo di carta, "perché in carcere per qualunque esigenza, dalla più piccola alla più grande, - spiega Marica Fantauzzi - si passa per la carta: c’è sempre un foglio che non si sa se verrà letto in tempo”. L’idea, racconta, è nata dalla casa editrice. “Ci hanno chiesto di immaginare un libro che parlasse ad adolescenti. Noi che siamo abituate a parlare di carcere in contesti di persone adulte, istituzionali o accademici, ci siamo rese conto che a volte le parole erano come usurate, o forse, finivano per usurare noi che le usavamo”.

Da qua l’idea di un abbecedario. Una parola per ogni lettera dell’alfabeto, illustrate da Ginevra Vacalebre. “L’idea che traghetta l’abbecedario - racconta l’autrice - è che forse le parole utilizzate finora dagli adulti non hanno innescato una trasformazione nella società, una messa in discussione dell'utilizzo esclusivo del carcere come forma di pena. Dunque è nata l’idea di dialogare con generazioni curiose, prive di pregiudizi e sicurezze sedimentate sull’idea che del carcere non si possa fare a meno”.

Le parole scelte sono in alcuni casi quelle che ci abituiamo da sempre a collegare al tema della detenzione, in altri sono termini specifici e quasi esclusivi del mondo carcerario. “Prima abbiamo individuato i temi che ci sembravano necessari per partire, perché non volevamo dare niente per scontato” - aggiunge Fantauzzi.

La A di ambiente ci introduce immediatamente nell’architettura penitenziaria. La C di cella, invece, ci conferma che “la galera è anche e soprattutto una questione di spazi”. Arrivando alla I ci si approccia a un tema complesso come l’infantilizzazione delle persone detenute, perché, si legge, “quando si entra dentro un carcere non si perde solo la propria libertà, ma anche la facoltà di decidere per sé rispetto alle cose che si vogliono e di cui si ha bisogno”. E dunque anche quel linguaggio diminuito e piccolo, usato per tanto tempo dentro gli istituti e spesso non del tutto abbandonato, finisce per rendere diminuito e piccolo anche ciò di cui si parla.

In altri casi ancora le parole scelte sono quelle che si usano tutti i giorni nella società libera, per tenere a mente che chi è in carcere ha bisogni e desideri come chi sta fuori. Dunque la F di famiglia serve per descrivere che “la fatica di mantenere un rapporto affettivo avendo a disposizione solo una manciata di minuti al mese per vedersi e parlarsi è gigantesca”.

Ma tra tutte, spiega Fantauzzi, ce n’è una a cui è più legata: la Notte. “È la nota più buia del libro. Buia di per sé e da un punto di vista sentimentale ed emotivo. Perché la notte è un momento ancora più atroce per chi sta dentro. Abbiamo scelto di non affrontare direttamente il tema del suicidio e dell’autolesionismo ma attraverso le pagine della Notte abbiamo l’occasione di raccontare un dolore immenso”.

*Contenuto pubblicato nel numero 53 della rivista Voci di dentro