Innocenti come Beniamino

04 Mar 2024 Francesco Lo Piccolo

Il carcere è discarica sociale dove 60 mila persone vivono relegate in un luogo degno del peggiore Ottocento, in molti casi anche senza acqua calda e riscaldamento, come confermano i rapporti annuali di Antigone, e in ozio più totale (solo 2.500 lavorano alle dipendenze di ditte esterne e di questi circa mille nel carcere di Bollate). Il carcere è sofferenza e violenza. Lo dimostrano i continui suicidi (86 nel 2022, 67 nel 2023, 18 dall’inizio dell’anno) e lo dimostrano episodi come quello avvenuto a Santa Maria Capua Vetere 4 anni fa e quello dello scorso aprile, ma reso noto pochi giorni fa, dove nel carcere di Reggio Emilia un detenuto è stato incappucciato con una federa, messo pancia a terra, preso a pugni, calpestato, denudato e trascinato nella cella. 
Il carcere è anche la recente storia di Beniamino Zancheddu, accusato e arrestato quando aveva 26 anni in seguito all’uccisione di tre pastori in Sardegna l’8 gennaio del 1991, vittima di indagini superficiali, bugie, depistaggi, ritrattazioni e false testimonianze. Un percorso di malagiustizia con contaminazioni di prove che gli sono costati 33 anni della sua vita. Zancheddu è stato liberato da meno di tre mesi, è un anziano adesso, di salute precaria, a piedi se ne è tornato a casa. Un uomo invecchiato dentro e che ha dovuto aspettare trentatré anni affinché gli fosse riconosciuta la completa estraneità ai fatti. Trentatré anni di vita persa prima di far emergere che il testimone, che aveva detto di averlo visto in volto, era stato indotto ad accusarlo da un poliziotto. Trentatré anni persi prima di dimostrare che il testimone non poteva vedere e riconoscere Zancheddu perché era buio.
Una storia emblematica questa di Zancheddu perché mostra come l’arresto, la pena e la conseguente carcerazione non fanno più i conti con la verità, ma più semplicemente con il bisogno di arrestare il primo che capita per dare un segnale che “la giustizia è fatta”. Ideologia pura, con la scomparsa di ogni dubbio o cautela: come se questo orribile iter della punizione non riguardasse persone ma soltanto cose. Come non ricordare Stefano Cucchi: aveva la faccia piena di lividi, era dolorante e claudicante eppure il suo caso venne rinviato a una successiva udienza di qualche mese dopo da un giudice che per tutto il tempo non lo aveva mai guardato in faccia o se lo aveva guardato non aveva avuto la capacità di vedere la sofferenza di quel ragazzo.
E come delle cose furono anche trattati Daniele Barillà, Pietro Valpreda e Enzo Tortora, tanto per citare alcuni dei più famosi casi di errori giudiziari. Tutti vittime di malagiustizia.  Il dato è spaventoso: dal 1991 al 2022 i casi di errori giudiziari hanno coinvolto 30mila persone. Divisi per anno fanno circa 961 cittadini sbattuti in carcere, in custodia cautelare, o addirittura condannati pur essendo innocenti.
Come una cosa e non una persona venne trattato Aldo Scardella, 25 anni arrestato perché accusato di omicidio compiuto nel corso di una rapina a Cagliari nel 1986. Undici anni dopo furono scoperti i veri autori del delitto che confessarono. Troppo tardi per Aldo Scardella, giovane e fragile, tenuto in isolamento per 185 giorni, il ragazzo che aveva invano gridato la sua innocenza, fu trovato impiccato alle sbarre della cella.
Ecco questo è il carcere, questo insegnano i casi Zancheddu. Soprattutto insegnano che il carcere è colpa collettiva: tutti noi vediamo, sappiamo, ma ignoriamo, girandoci dall’altra parte.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di febbraio di "Ditutticolori" bimestrale della Casa Betania (Coop l'Accoglienza)