Ma questa istituzione carcere non ha le carte in regola per assolvere alla sua funzione
07 Oct 2025 Carmelo Cantone Francesca FascianiPiù di una volta, negli anni e in situazioni diverse mi è stato chiesto: “Perché l’istituzione carcere viola così tanto i diritti della persona prescritti dalla Costituzione?”. Una domanda e un tema che ritorna nei dialoghi con addetti ai lavori, con gli stessi operatori penitenziari, spesso anche con il cittadino comune che non ha una comprensione specifica del mondo penitenziario ma che legge e commenta le notizie sul carcere.
Gli anni passano e così questa domanda esprime sempre più malessere, perché è vero che il tempo non è trascorso invano nei percorsi del sistema penitenziario, ma più ci si allontana cronologicamente dagli anni delle riforme e più si avvertono le incompiutezze, le assurdità, gli errori e tanto altro.
Il sistema penitenziario così com’era negli anni 70 e 80, cioè gli anni della riforma penitenziaria del 1975 e poi della legge Gozzini del 1986, aveva sicuramente delle defaillance enormi e dei divari culturali e gestionali molto forti, ma a distanza di tanti anni bisogna dare conto del perché l’istituzione carcere non ha, e aggiungo, non può avere le carte in regola rispetto all’assolvimento della funzione che le è richiesta.
Ma cerchiamo di andare in ordine. Rispetto all’attuale stato di cose focalizziamo due elementi di cambiamento importanti degli ultimi 15-20 anni. Parliamo della produzione in termini di decisioni fondamentali sia della Corte europea dei diritti che della nostra Corte costituzionale. Il secondo elemento consequenziale è l’emersione nello stesso periodo temporale di quella che è stata definita come la stagione dei diritti in carcere. Ad un lavoro intenso di sensibilizzazione non solo giurisprudenziale ma anche dottrinale degli studiosi e sul campo da parte di componenti importanti degli operatori penitenziari ha corrisposto la centralità dei diritti della persona detenuta; ma i diritti sono tali se sono tutelabili e quindi se vengono affermati e poi garantiti.
Credo che questa fase, che si avvia con maggior forza a partire dalla prima decade degli anni 2000, abbia presentato il conto ad un sistema che soprattutto dalla legge Gozzini in poi aveva concentrato la sua attenzione sulla “decarcerizzazione”, quindi potenziamento delle misure alternative, piuttosto che sulla qualità della vita in carcere, sulla necessità di garantire l’esercizio dei diritti di cui rimane titolare la persona detenuta. L’aumento significativo delle presenze in carcere, l’inadeguatezza delle strutture penitenziarie, la maggiore presenza di detenuti appartenenti alla criminalità organizzata per le scelte di politica criminale e per l’applicazione dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, non ultimo l’aumento esponenziale di detenuti stranieri, confliggevano con le necessità di una nuova stagione dei diritti.
I contenziosi in via giurisprudenziale che man mano si sono sviluppati non potevano non mettere a nudo come fosse molto marcato lo scarto tra ciò che il carcere riusciva a garantire (contenimento) e la necessità di migliorare la qualità della vita dei singoli e della collettività.
Abbiamo cominciato a ragionare con maggiore lucidità sulla qualità della vita in carcere quando abbiamo toccato con mano che l’emergenza suicidaria era qui ed ora. Abbiamo affrontato più seriamente la questione degli spazi in carcere quando abbiamo cercato di uscire dalla logica della stanza di pernottamento come punto centrale e primario della vita in carcere (per la verità ancora oggi ed anche più di ieri l’attuale governance ragiona quasi esclusivamente in termini di “alloggiamento” delle persone).
Raccontando questo non mi sottraggo rispetto all’individuazione di cause non solo oggettive (è oggettivamente constatabile che quasi tutti gli istituti penitenziari italiani non hanno degli standard edilizi abitativi minimamente in linea con le norme di settore). Infatti, dobbiamo guardare agli uomini e alle donne di tutti i ruoli e di tutti i livelli di responsabilità che hanno operato e stanno operando in questi anni. Su questo si sono sovrapposti più problemi. È vero che nel tempo è stato sempre necessario cercare di ridurre ad unità di intenti il personale dei diversi ruoli e poi lavorare soprattutto per e con la polizia penitenziaria per far sì che i suoi appartenenti si muovessero in sintonia con i principi costituzionali e la vasta normativa di settore.
Se guardiamo alle inchieste e alle condanne di questi anni in sede penale per torture e atti di violenza da parte di poliziotti penitenziari dovremmo concludere che chi di noi ha lavorato in ruoli apicali nei territori ha fallito in questa missione.
In realtà negli anni ci siamo avvalsi di tanti eccellenti operatori, ne abbiamo avuti altri che invece non sono stati in sintonia con la domanda che mirava al miglioramento di sistema. È difficile oggi fare un quadro realistico di quale sia la condizione della polizia penitenziaria. Mi sembra che facciamo i conti con una sorta di “macedonia” dove sono presenti forti istanze di crescita accanto a sacche di interessi personali e qualunquismo, operatori che faticano ad avere un minimum di dignitose condizioni lavorative e altri che di mestiere evitano di lavorare negli istituti per scomparire dentro gli uffici amministrativi di supporto, siano essi all’interno del DAP, dei provveditorati o dei ministeri.
La possibile fuga dal lavoro nel carcere coinvolge tutti i ruoli professionali. Esiste lo scoramento, la disaffezione, il senso di abbandono, la paura. È indicativo in proposito il dato delle centinaia di agenti di nuova assegnazione che dopo pochi mesi di servizio presentano le dimissioni e preferiscono essere restituiti alla disoccupazione.
Ma questo che stiamo raccontando, per tratti, non è una causa della crisi del sistema penitenziario bensì il suo effetto negativo che investe tanto i detenuti, quando le loro condizioni di vita quotidiane (non parliamo di diritti “alti”) diventano indegne, quanto gli operatori che sul lavoro in carcere hanno investito e stanno cercando di investire.
Rimaniamo però ancora per qualche momento sul piano della responsabilità. Siamo sicuri che sia attiva un’analisi costante della qualità del lavoro che viene fatto nelle singole realtà territoriali? Su questo credo che manchi da tempo la corretta radiografia degli istituti per valutare dove, pur davanti alle difficoltà, si sta lavorando al meglio e dove invece non si vuole o non si sa operare in progressione.
Se ad una valutazione rigorosa, con criteri chiari e condivisi, seguisse poi anche l’attività di sostegno e di rafforzamento a chi sta lavorando bene e un intervento puntuale rispetto a chi non sta aderendo alle norme e ai programmi dell’amministrazione, probabilmente registreremmo in tempi ragionevoli un forte miglioramento delle condizioni di vita negli istituti. Tutto questo purtroppo negli anni spesso non è accaduto e ciò aiuta a comprendere come mai un diritto acclarato viene garantito in un istituto e in un altro invece no.
Con queste riflessioni vengono in mente tanti aspetti su cui l’amministrazione penitenziaria è chiamata a dare conto: i colloqui con i familiari, le telefonate, la garanzia delle cure sanitarie, la garanzia di buone condizioni igieniche, e poi l’ascolto, le relazioni, le opportunità dall’istruzione al lavoro, ma anche il rispetto delle regole che bisogna saper insegnare.
Mi rendo conto che parlando di queste cose si rischia di arrivare a fare una lista infinita di problemi senza aiutare a comprendere perché oggi il sistema penitenziario sta implodendo, allora provo a fare una short list di ciò che si dovrebbe invece fare per invertire la rotta.
- Aumentare decisamente gli investimenti economici sul mondo penitenziario e contemporaneamente qualificare la spesa su manutenzione straordinaria degli istituti, implementazione degli strumenti tecnologici sia per la sicurezza che per il miglioramento della qualità della vita in carcere.
- Miglioramento della formazione professionale e dell’aggiornamento degli operatori. Un percorso chiaro per tutti su cosa ci stiamo a fare nel carcere.
- Un’alleanza strategica con le regioni e gli enti locali e il mondo del terzo settore più qualificato ed impegnato, sempre per concordare una strategia comune nel territorio, evitando interventi a macchia di leopardo a carattere episodico e residuale (vedi gli interventi sulla formazione professionale).
- Lavorare per ricreare un filo comune, una ragione comune che tenga insieme chi governa l’amministrazione penitenziaria con i territori, cioè provveditorati e istituti penitenziari. Parliamo sostanzialmente di condivisione di un progetto complessivo.
- Intercettare tutto ciò che di innovativo e interessante la società esterna è in grado di esprimere e che può costituire fattore di cambiamento dentro il carcere, cominciando dalle tecnologie digitali. Mi fermerei qui, ognuno può aggiungere altri punti importanti, ma ricordo quello che ci insegnava il mio professore di italiano alla scuola media, quando diceva che raccogliendo tanti zero non si arriva a nulla se prima non premetti un uno.
Bene, l’uno in questione è una governance politica che metta insieme tutte le azioni, che guardi alla Costituzione, che comprenda che agli operatori di tutte le professionalità bisogna dare un messaggio chiaro, un mandato importante che solo uno stato democratico forte riesce ad esprimere, senza creare steccati e diffidenze di sorta, ascoltando i territori e valorizzando le buone prassi.
Senza questo uno tutto il resto rimane un esercizio di stile. Mi rendo conto che la domanda iniziale continuerò a risentirla per chissà quanto tempo.
*Questo articolo è pubblicato sul numero di ottobre della rivista Voci di dentro
* Carmelo Cantone è stato Vice Capo del Dap e direttore degli istituti di Brescia, Padova e Roma Rebibbia