Nella società dei premi e delle punizioni niente più carote ma soltanto bastoni
07 Oct 2025 Vincenzo ScaliaL’alternanza tra il bastone e la carota rappresenta un elemento costitutivo della sfera politica. Le entità statuali, per esempio, devono necessariamente, ai fini del proprio consolidamento e della propria riproduzione, bilanciare l’uso della forza per mantenere l’ordine con l’elargizione di benefici, materiali e simbolici, alla popolazione assoggettata. Le rivoluzioni liberali e democratiche, i movimenti di massa, hanno portato, in particolare dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, a pensare che l’utilizzo del bastone svolgesse un ruolo residuale all’interno di società che si autodefinivano (e tuttora si autodefiniscono) democratiche e inclusive.
Se è vero che, nei cosiddetti trent’anni gloriosi del dopoguerra, sono stati realizzati notevoli passi avanti verso l’emancipazione sociale e politica di larghi strati della società, dall’altro lato non si può ignorare che l’utilizzo del bastone ha continuato a contraddistinguere le società occidentali. All’interno, dove la permanenza delle istituzioni totali come carceri e manicomi è risultata nel perpetrarsi di pratiche disumane, marciando di pari passo alla marginalizzazione di alcuni specifici gruppi sociali. All’esterno, dove le guerre, la repressione dei movimenti indipendentisti delle colonie, l’ingerenza negli affari interni di altri Stati, ha mostrato una recrudescenza della violenza.
A partire dagli anni Ottanta, l’esaurirsi del compromesso sociale keynesiano, la sconfitta dei movimenti sociali, la crisi dei soggetti collettivi, si è prodotta di pari passo a quella che potremmo definire come la controrivoluzione neoliberale. La cosiddetta governance, intesa come la gestione dei processi economici e sociali, ha sostituito il disegno e la messa in atto di progetti ad ampio raggio da attuare nel corso del tempo.
Spesso e volentieri, dietro a termini dal significato talvolta sfuggente, si cela una strategia di contenimento delle tensioni, dei conflitti, di gestione dell’esistente a partire dalle risorse a disposizione, destinate ai gruppi sociali e agli individui maggiormente integrati a livello socio-economico, e in possesso delle risorse simboliche che mettono loro in condizione di avere un peso, per quanto sempre più ridotto, a livello pubblico. Gli altri, in una società che si fa sempre più competitiva e per questo considera naturale escludere una quantità consistente di persone, vanno contenuti, repressi o del tutto rimossi.
La società neoliberista, definita da Jock Young come una società bulimica, che ingloba e allo stesso tempo vomita fuori larghe quantità di persone, si connota per avere introdotto una nuova forma di equilibrio tra la forza e il consenso, ovvero tra il bastone e la carota. Si tratta di una trasformazione singolare, che porta le due polarità a coincidere, con l’esito finale che fa sì che il bastone sia la carota, e viceversa. Questa singolare coincidenza può essere sviscerata articolando l’analisi su tre piani: sociale, ideologico e militare.
A livello della società, si può affermare che, più che di una coincidenza, siamo in presenza di una totale scomparsa della carota al posto del bastone. Gli investimenti sulla scuola, la sanità, la formazione professionale, gli alloggi, servizi per il tempo libero e la cultura, sono quasi del tutto scomparsi, limitati prevalentemente al mantenimento dell’esistente. Valga per tutti il caso dell’edilizia residenziale pubblica, che ormai viene applicata solo per le persone estremamente bisognose, contraddicendo il principio della casa come un diritto e costringendo a rivolgersi al mercato immobiliare privato. Valga per tutti l’esempio inglese, dove, nel 1979, gli alloggi pubblici ammontavano al 42% del patrimonio edilizio. Una percentuale che oggi si è ridotta all’8%. Una simile contrazione nella possibilità di accedere a un bene primario sortisce l’effetto collaterale di scatenare la conflittualità tra le fasce medio-basse della popolazione, favorendo l’attecchimento della xenofobia e rendendo necessario l’intervento delle forze dell’ordine, così da giustificare la crescita ipertrofica degli apparati repressivi e l’aumento dei tassi di detenzione. Ovviamente, a tutto vantaggio della rendita immobiliare e della speculazione fondiaria.
Sulla scia di quanto teorizzava alcuni anni fa il sociologo francese Loic Wacquant, allo stato sociale si è sostituito lo stato penale. Non a caso, i tagli alla spesa pubblica, hanno riguardato il welfare, mentre non hanno intaccato polizia, magistratura e istituti penitenziari. Nel caso le spese vengano tagliate in questi settori, si tratta di una scelta che risponde a delle logiche ben precise. Una riguarda, come avviene nei paesi anglosassoni, il ricorso a forze di polizia private, oppure l’applicazione di modelli predittivi di polizia, che si basano su controlli biometrici e l’elaborazione di dati che riguarda sempre gli individui appartenenti alle classi pericolose: migranti, rifugiati, rom, disoccupati, minori stranieri non accompagnati, sex workers. L’altra riguarda l’intenzione deliberata di rendere il carcere un luogo invivibile, dove i detenuti vengano definitivamente rimossi dalla società, costretti a vivere in condizioni disumane. Un magistrato di sorveglianza fiorentino, recentemente, ha affermato senza molto pudore che i detenuti non possono pretendere l’acqua calda. Il sottosegretario alla giustizia ha dichiarato senza pudore che nei furgoni adibiti al trasferimento i detenuti non devono respirare. Il garante delle persone private della libertà gli fa eco, con la sua convinzione che chi è in carcere non può pretendere di avere diritti. Portando avanti la singolare concezione che i garanti debbano tutelare anche i poliziotti penitenziari, muovendosi in controtendenza a quello che prescrive il suo mandato. Il bastone, quindi, in una società che fa dell’immagine e della comunicazione (intesa come propaganda) la sua cifra, magari sarà colorato di arancione, o stilizzato, da uno dei creatori di moda, sul modello di una carota, ma diventa sempre più pesante, e colpisce con decisione sempre maggiore.
Se ci spostiamo a livello ideologico, ci accorgiamo lo spostamento della carota da un piano materiale ad una dimensione del tutto immateriale. La divaricazione della forbice sociale prodotta dal neoliberismo, indurrebbe a pensare ad una contrapposizione tra i diversi gruppi sociali pronta a sfociare in conflitti acuti ed aspri. Sorprendentemente, o forse no per le ragioni che stiamo per appurare, l’ordine neoliberista appare saldo. Da un lato, l’esaurirsi della prospettiva delle grandi ideologie, ha svuotato di motivazioni e speranza le progettualità orientate a una fuoriuscita dal capitalismo. La repressione ha rafforzato la tendenza. Dall’altro, tuttavia, non si può non riscontrare il prevalere di un’egemonia ideologica, vera e propria carota che fa da contrappeso al bastone neoliberista.
Trump ha preso voti dalla classe operaia. Come Berlusconi, Orban, Le Pen, e i vari movimenti populisti. Come mai? Vincenzo Ruggiero ci spiegava come la funzione ideologica, più che come mistificazione, agisca come proiezione della voglia di riscatto e ascesa sociale dei gruppi sociali subalterni. I tycoon multimiliardari, arroganti, sessisti, razzisti, che si fanno largo a spallate, rappresentano il modello da cui una società improntata alla competizione individuale trae ispirazione. Specialmente se il successo, la fama, i soldi, i beni materiali, rappresentano la meta ultima del vivere associato.
L’impianto ideologico si avvale dell’apporto decisivo di un’industria mediatica onnipervasiva e aggressiva, che riempie il vuoto lasciato dalla crisi dei corpi intermedi e dei luoghi di elaborazione e produzione del discorso pubblico, come i partiti e i sindacati. La carota ideologica lavora in due direzioni: oltre a indicare i modelli a cui tendere e conformarsi, mette in scena una realtà parallela, caratterizzata dalla paura, suscitando la domanda di campioni del bene che con ogni mezzo ripuliscano la società di ogni minaccia. Serie televisive, trasmissioni di intrattenimento, programmi di approfondimento, si caratterizzano per rappresentare lo spazio pubblico come un girone dell’inferno irto di pericoli, da cui difendersi con le maniere forti.
Gli echi delle paure mediatiche vengono recepiti da una sfera politica sempre più passiva, pigra, ridotta a ratificare le decisioni prese da tecnocrazie esterne al consenso politico, dove l’unico ambito rimasto di confronto ravvicinato col pubblico è rappresentato dalla questione criminale. Per la quale, la soluzione, è sempre rappresentata dalla proposta e dall’implementazione di politiche caratterizzate dal binomio legge ed ordine. L’esempio del governo in carica, che ha smantellato la giustizia minorile varando il Decreto Caivano per rispondere alla chiamata mediatica seguita a un grave fatto di cronaca, ne costituisce un esempio calzante. Le carote ideologiche, tanto efficaci sul piano dell’immaginario, non lo sono su quello pratico. Sia perché non risolvono i problemi che indicano, ma, anzi, li aggravano. Sia, soprattutto, perché agiscono da veri e propri bastoni, nella misura in cui soffocano ogni possibilità di dubbio rispetto alla realtà esistente, colonizzando per intero l’immaginario.
Last but not least, non è da trascurare il piano militare. La tragedia di Gaza, la guerra in Ucraina, non sono più faccende lontane di cui leggere in tv, nella stampa, sui social. Al contrario, stanno riconfigurando in modo decisivo gli assetti della nostra società. La creazione di un nemico esterno, il ricorso continuo alla categoria arbitraria di “Occidente” in contrapposizione al resto del mondo, marcia in parallelo a un progressivo ridispiegamento degli apparati militari. Si taglia ancora il welfare, si dirotta la spesa pubblica verso il riarmo. Settori della produzione civile vengono riconvertiti a scopi bellici, come si è in programma di fare, ad esempio, col cantiere navale di Palermo.
La carota militare può rappresentare il punto estremo di governo delle tensioni sociali, nella misura in cui le proietta all’esterno e consente di governare le tensioni sociali, per esempio, con una guerra che arruoli l’esercito di riserva dei disoccupati, o impieghi, come ha proposto un anno fa un generale dei carabinieri, i migranti e i rifugiati nello sforzo bellico. In cambio di una cittadinanza di cui non potrebbero godere molto qualora cadessero in guerra.
Sì, il bastone è la carota. Aguzza e avvelenata. Pronta a colpire sempre gli stessi. E’ ora di cambiare dieta. E di seppellire il bastone. Prima di venirne travolti.
*L'articolo è stato pubblicato sul numero di ottobre della rivista Voci di dentro
*Vincenzo Scalia è docente di Sociologia della devianza all’Università di Firenze