Sottopagati, senza orario e ogni mese il carcere si trattiene l’affitto della cella
07 Oct 2025 Denise Amerini Marzia CotugnoQuest’anno ricorrono i 50 anni dell’Ordinamento Penitenziario, la legge 354 del 1975. Ordinamento che già allora aveva parole chiare sul lavoro delle persone ristrette, affermando che non deve avere carattere afflittivo, deve essere remunerato, avere finalità rieducative e di risocializzazione. L’art. 20 stabilisce che l’organizzazione ed i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera, al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative, per agevolarne il reinserimento sociale.
L’Ordinamento non ha comunque modificato in maniera radicale la concezione retributiva del lavoro in carcere, limitandosi ad evolvere la teoria del lavoro punitivo e correttivo, in quella del lavoro rieducativo, non rendendolo di fatto un diritto.
E così troppo spesso il lavoro delle persone ristrette è ancora visto come misura accessoria della pena, come poco qualificato e poco produttivo, sconta limiti importanti per quanto riguarda l’esigibilità di tutti i diritti che devono necessariamente essere connessi alla prestazione lavorativa.
Basti pensare al salario, ancora riconosciuto nella misura dei 2/3 della retribuzione prevista dal contratto collettivo per quella prestazione lavorativa, alla mancanza di un orario lavorativo definito, al pieno riconoscimento dei riposi, delle ferie, dalle sospensioni dovute all’avvicendamento, che non hanno le regole e le garanzie di un part time verticale, alla mancanza di un contratto di assunzione dal quale risultino chiaramente modalità, tempi, articolazione della prestazione lavorativa. In più, il lavoro svolto alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria non garantisce nessun percorso in qualche misura professionalizzante, spendibile ai fini dell’inserimento lavorativo fuori dal carcere.
La Corte EDU è intervenuta su questo tipo di approccio, accogliendo le osservazioni e le proposte delle European Prison Rules del 2006, che chiedono il superamento del modello correzionale e l’implementazione di tutti i diritti compatibili con la detenzione: per quanto riguarda il lavoro, quindi, il diritto ad una giusta retribuzione, alla previdenza, a salute e sicurezza. Tuttavia, nel nostro Paese non si è ancora realizzata una completa equiparazione normativa fra lavoro penitenziario e lavoro libero: il decreto legislativo 124/2018 ha riscritto l’art. 20 OP, eliminando ogni previsione di obbligatorietà, chiaramente in contrasto con il principio del libero consenso al trattamento, stabilendo che la durata delle prestazioni non può superare i limiti stabiliti dalle leggi, che sono garantiti il riposo festivo, il riposo annuale retribuito, la tutela assicurativa e previdenziale, ed intervenendo sulla disciplina della remunerazione (finalmente non più mercede) quantificata però nella misura dei due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi.
Questo riguarda, ovviamente, il lavoro svolto alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, perché per le persone ristrette alle dipendenze di aziende esterne si applica integralmente il contratto di riferimento. Ma se il lavoro delle persone ristrette deve essere pienamente equiparabile a quello svolto fuori dal carcere, al lavoro delle persone libere, senza distinzioni tra lavoratori liberi e detenuti, fra dipendenti dell’Amministrazione o di datori di lavoro esterni, la riduzione di un terzo del salario non trova alcuna giustificazione, e non può trovarne neanche nella motivazione che tale importo serve a contribuire al mantenimento presso l’istituto penitenziario.
Senza considerare il fatto che, comunque, i detenuti sono tenuti a rimborsare parte delle spese per il loro mantenimento in carcere secondo quanto stabilito dall’art. 2 OP. In questo percorso si è inserito il CNEL, con l’istituzione del Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale, lavorativa delle persone private della libertà personale. I lavori di questo organismo hanno contribuito all’elaborazione di un disegno di legge, approvato nell’Assemblea del 29 maggio 2024, recante ‘Disposizioni per l’inclusione lavorativa delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o restrittivi”. Tale disegno di legge giunge dopo anni in cui molte associazioni, giuristi, organizzazioni della società civile, compresa la nostra, con prese di posizione ed iniziative pubbliche, hanno chiesto con forza di intervenire per normare il lavoro penitenziario affinché non scontasse più differenze con il lavoro libero.
Come si legge nel comunicato stampa diramato a seguito di quella Assemblea, il disegno di legge vuole rivisitare, come fortemente richiesto dalla nostra Organizzazione, l’attuale quadro normativo e regolamentare in materia di ordinamento penitenziario. In particolare, l’art. 1 interviene sull’art. 20 OP, e sul DL 124, stabilendo che ai “detenuti e agli internati si applica il contratto collettivo nazionale territoriale e aziendale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dai datori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale, applicato nel settore produttivo e strettamente connesso con l’attività svolta”. E prevede che venga superata la retribuzione pari a 2/3 del trattamento economico previsto dai contratti collettivi, modificando il testo dell’art. 22, con la dicitura “in misura pari al trattamento economico e normativo complessivo previsto dal contratto collettivo nazionale territoriale e aziendale stipulato dalle associazioni sindacali e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale”, recependo le richieste e le proposte avanzate unitariamente durante i lavori del segretariato.
Questo risponde all’obiettivo di una piena e completa equiparazione del lavoro delle persone ristrette a quello delle persone libere, del lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria a quello svolto per altri soggetti datoriali.
Nel disegno di legge non viene fatto alcun riferimento al Lavoro di Pubblica Utilità, previsto dal decreto 124/2018. Vogliamo pensare che questo sia un passo verso il suo definitivo superamento, proprio in ragione di quanto scritto nell’articolo 1.
Merita tornare anche sull’istituto della Naspi, argomento già affrontato da questa pubblicazione. L’art. 20 dell’ordinamento penitenziario aveva stabilito l’accesso agli ammortizzatori sociali previsti per ogni lavoratore anche per i detenuti lavoratori, riconoscendo il diritto alla previdenza sociale. La Naspi è stata disciplinata dal decreto legislativo 22 del 2015, che non esclude né direttamente né indirettamente il lavoro carcerario dall’assicurazione. I rapporti di lavoro delle persone ristrette, sia alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria che, ovviamente, di imprese esterne, sono assoggettati alla contribuzione, i requisiti contributivi previsti dalla norma sono del tutto compatibili con il lavoro penitenziario. Anche la previsione dell’immediata disponibilità “allo svolgimento ed alla ricerca di una attività lavorativa secondo modalità definite con i servizi competenti”, non realizzabile per persone private della libertà personale, é superata da quanto previsto dalle previgenti norme sul collocamento, che esoneravano i detenuti da tale requisito. Ancora oggi, però, i lavoratori che hanno svolto prestazioni lavorative durante la detenzione si trovano costretti ad agire vertenzialitá nei confronti di INPS per vedere riconosciuto il loro diritto. La nostra Organizzazione, anche in questi giorni, è impegnata a sollecitare Inps e Ministero del Lavoro perché si adottino soluzioni che finalmente garantiscano l’esigibilità del diritto, superando definitivamente la circolare Inps 909/2019.
La giurisprudenza costituzionale, la Corte EDU, hanno ripetutamente affermato la formale equipollenza del lavoro penitenziario con il lavoro libero: non possiamo accettare che vengano poi strumentalmente introdotte differenziazioni sostanziali. Il lavoro in carcere deve finalmente perdere ogni caratteristica afflittiva deve avere le stesse tutele e le stesse garanzie del lavoro fuori, anche per quanto riguarda l’accesso agli ammortizzatori. Non può essere un obbligo, è un diritto: la norma recita che l’amministrazione è tenuta a garantirlo, eppure sappiamo quanto ancora siamo distanti dall’obiettivo della garanzia di un lavoro dignitoso, riconosciuto, tutelato per le persone ristrette, visto che ad oggi lavora solo 1/3 dei detenuti, troppo spesso per poche ore al giorno, per pochi giorni durante la settimana, in maniera discontinua durante l’anno. E di questi solo un 3% circa è alle dipendenze di datori di lavoro esterni.
In questo senso rivestono importanza gli articoli del disegno di legge Cnel che estendono i benefici della legge Smuraglia, prevedendone un prolungamento temporale e incentivandone una applicazione diffusa sul territorio, che potenziano le commissioni già previste dalle norme, anche ai fini della certificazione delle competenze formative e professionali delle persone detenute, che introducono la possibilità di convenzioni e protocolli di intesa con enti di patronato e centri di assistenza fiscale delle organizzazioni sindacali e degli enti del terzo settore, al fine di assicurare l’erogazione di servizi di assistenza all’espletamento delle pratiche per prestazioni assistenziali e previdenziali e servizi di politiche attive del lavoro.
Al di là delle intenzioni, è comunque questo un percorso tutto da verificare, sul quale ci impegneremo all’interno del Segretariato, ed in tutti i luoghi in cui possiamo far sentire la nostra voce. Consapevoli che se non si interviene a monte, sulla condizione insostenibile delle carceri nel nostro paese, sarà difficile che provvedimenti del tutto condivisibili, nati con le migliori intenzioni, possano avere un risultato significativo e concreto. L’impegno deve proseguire, per fare in modo che venga rimossa ogni violazione dei diritti delle persone ristrette, perché non succeda quello a cui stiamo ancora assistendo, per esempio, per quanto riguarda il diritto all’affettività, riconosciuto dalla Suprema Corte a gennaio dello scorso anno, ed ancora non compiutamente esigibile. Perché si dia finalmente piena applicazione all’art. 27 della Costituzione.
*L'articolo è pubblicato sul numero di Ottobre di Voi di dentro
* Denise Amerini è responsabile carcere e dipendenze della Cgil nazionale