Nella notte tra l’1 e il 2 maggio, un uomo è morto nel Cpr di Brindisi Restinco: Abel Okubor, 37 anni, nigeriano. Tre informazioni basilari — il nome, l’età, la provenienza — che hanno impiegato giorni per venire alla luce. Giornalisti, attivisti e parlamentari che si sono interessati alla sua morte hanno faticato a ottenerle. Sarebbero dettagli minimi, se non fosse che sulle persone trattenute nei Centri per il Rimpatrio cala un velo di insignificanza, che si traduce anche nella difficoltà, per il mondo libero — per noi — di sapere qualcosa di concreto su di loro.
Ci si può interrogare per mesi, senza ottenere risposte, su perché queste persone vengano trattenute, quale sia il loro stato di salute, quali violenze subiscano ogni giorno, a quali diritti fondamentali venga loro negato l’accesso. Fino ad arrivare alla domanda più tragica e definitiva: perché un uomo di 37 anni è morto mentre era sotto la custodia dello Stato? E ancora: perché la sua morte è stata taciuta al deputato Claudio Stefanazzi, che proprio la mattina del 2 maggio era in visita alla struttura e ha incontrato operatori sanitari e non, in un clima da lui stesso definito “sereno”?
Il governo, in risposta all’interrogazione parlamentare presentata da Stefanazzi, ha risposto che il Prefetto di Brindisi era convinto che il deputato fosse già a conoscenza del decesso. Ma resta il fatto che le stesse persone che poche ore prima avevano gestito una morte, sono state in grado di accogliere un parlamentare senza fare alcun cenno all’accaduto. Nei giorni successivi, grazie al presidio degli attivisti della rete No Cpr – Puglia, si è saputo che Okubor, che si faceva chiamare Mimmo, è morto tra le convulsioni, con la schiuma alla bocca. Sintomi che potrebbero indicare un’overdose da farmaci, da confermare con l’autopsia. Nel Cpr di Brindisi, il 50% delle persone trattenute assume psicofarmaci. Non solo attraverso la somministrazione ufficiale della “terapia” — un termine familiare a chi conosce il carcere — ma anche perché i farmaci vengono mescolati al cibo, all’insaputa di chi è costretto a nutrirsene per non fare la fame. Questa prassi è un metodo di sedazione collettiva, di disciplinamento e di controllo. Ed è pericolosa, oltre che potenzialmente illegale. Ogni prescrizione dovrebbe essere frutto di una valutazione psichiatrica individuale, e invece diventa routine, strumento dell’amministrazione per tenere a bada gli umori delle persone recluse, che — racconta Stefanazzi — alle undici del mattino dormono ancora, gettate sulle brande.
Quella di Okubor è la terza morte in tre mesi avvenuta sotto la responsabilità dello stesso soggetto gestore: il consorzio composto dal gruppo Agh Resort Ltd e dalla cooperativa sociale Hera. Perché, lo ricordiamo, i Cpr non sono gestiti da istituzioni pubbliche ma da aziende, spesso multinazionali della detenzione, che vincono appalti proponendo ribassi significativi sui costi di servizio. Ribassi che si traducono, inevitabilmente, in condizioni disumane, abusi e violazioni sistematiche dei diritti fondamentali. Tre morti in tre mesi dovrebbero dunque spingerci a interrogarci, con gravità e urgenza, sulla natura stessa dei Centri di permanenza per il rimpatrio: luoghi di detenzione amministrativa dove vige la logica del profitto, quella della repressione e quella dell’esclusione dai diritti, su cui la cittadinanza non ha alcun controllo. Ma l’interrogativo fondamentale non riguarda solo la gestione e la mancata sorveglianza democratica: riguarda le traiettorie di vita delle persone che vi vengono trattenute. Nell’immaginario collettivo, forse, i Cpr sono contenitori per chi arriva irregolarmente via mare e viene trattenuto in attesa del rimpatrio. E se anche fosse questa l’umanità che stiamo rinchiudendo, ci sarebbe comunque motivo di scandalo: uomini giovani e giovanissimi che approdano dopo esodi lunghi e dolorosi vengono accolti dalla violenza istituzionalizzata, dalla precarietà giuridica, e cacciati in una forma estrema di insignificanza politica. Quella che lo Stato italiano riserva a chi dichiara immeritevole di varcare il perimetro della cittadinanza.
Ma la questione è ancora più vasta e complessa: i Cpr trattengono anche persone che vivono in Italia da anni, che lavorano, parlano italiano, hanno costruito relazioni affettive e sociali. Persone che, per un vizio formale o un ritardo burocratico, diventano improvvisamente "irregolari" e dunque detenibili. Okubor era arrivato in Italia nel 2013. Aveva lavorato per anni come bracciante tra Foggia e Lucera. Il titolare dell’azienda agricola in cui prestava servizio aveva da poco espresso l’intenzione di assumerlo regolarmente: sarebbe bastato questo per far partire una nuova richiesta di permesso di soggiorno per lavoro. Non ce n’è stato il tempo.
La sua prima richiesta di protezione internazionale era stata rigettata dal tribunale di Bari. La procedura si era formalmente chiusa solo nel 2023, ma il tribunale non era riuscito a notificarla a causa della morte del suo precedente legale. Un errore tecnico che ha generato un effetto domino: le nuove richieste di protezione speciale presentate dal nuovo avvocato sono state dichiarate inammissibili per l’assenza della chiusura formale della procedura precedente. Okubor è così diventato destinatario di un decreto di espulsione, e la sua permanenza nel Cpr di Brindisi Restinco era stata da poco prorogata fino a luglio.
Come lui, molti altri sono reclusi non per aver commesso reati, ma perché intrappolati in un limbo giuridico e sociale prodotto dalle stesse fragilità strutturali – lavorative, abitative, legali – a cui la politica non sa rispondere con la dovuta complessità. Se la minaccia della detenzione amministrativa è una spada di Damocle che incombe anche su chi ha lavorato per dare forma a una vita, allora i Cpr non sono che l’attestato del fallimento di una democrazia che pretende di dirsi tale. Luoghi dove è molto facile morire, senza che la propria morte valga almeno la decenza di fornire spiegazioni.
*giornalista, autrice del podcast Gattabuia