Una morte ingombrante
20 Oct 2025 Claudio Bottan Veronica Croccia (particolare) - Camera penale di PisaEra malato, obeso e diabetico: spostato da un istituto all’altro nonostante i suoi 260 chili rappresentassero una evidente disabilità incompatibile con il carcere. Questa mattina il cuore di Francesco De Leo, 51 anni, ha smesso di battere al carcere Lorusso Cotugno di Torino. Lo hanno spostato da un carcere all’altro finché il suo cuore ha ceduto. Per dieci giorni nessuno gli ha dato un letto adatto. Quel letto bariatrico che, ironia della sorte - o cartina di tornasole di un sistema malato di inefficienza-, è arrivato solo qualche ora dopo la sua morte.
Ufficialmente è un “arresto cardiaco”, e come tale sarà conteggiato tra le ‘morti per altra causa’ di cui relaziona il DAP. Una formula burocratica, precisa e neutra. Ma dietro quelle due parole c’è molto di più: l’abbandono, la solitudine, la stanchezza di un uomo che da tempo non trovava più posto nel mondo. Francesco aveva un passato complicato, segnato da errori e da un’aggressione in una struttura sanitaria che lo aveva riportato dietro le sbarre. Fine pena nel 2040 per un cumulo di reati di truffa. Da allora, il suo corpo era diventato un problema logistico più che una vita da curare. Un grosso problema logistico, tant’è che – alla notizia del suo decesso – qualche genio ha commentato: “Si sono liberati almeno quattro posti in galera!”.
Era stato arrestato in Puglia nel 2021, il magistrato di Sorveglianza gli aveva concesso i domiciliari a Cuneo, dal fratello. Dopo qualche mese, era stato ricoverato in una Rsa di Bra, Cuneo, dove però aveva aggredito il personale e quindi era stato dirottato verso il carcere di Cuneo dove, tuttavia, non è mai entrato perché le celle non erano abbastanza grandi. Per ospitarlo, di conseguenza era stato ricoverato all’ospedale Santa Croce. Dopo un mese di permanenza era stato spostato al carcere Marassi di Genova, dove è rimasto per due settimane, fino all’ultima tappa nel sovraffollato carcere «Lorusso e Cutugno» di Torino.
Un caso ingombrante, senza cadere nella becera ironia. Una faccenda che si conclude nel peggiore dei modi con un’unica certezza: la macchina della Giustizia, lenta ma inesorabile, non ha mai trovato il tempo per adattarsi a lui. Si è adattato lui, finché ha potuto. Poi il cuore ha ceduto, in una cella del padiglione A del carcere di Torino, dove il silenzio pesa più delle sbarre.