A settembre Marta chiese a P. se avesse finito di leggere il libro. Rispose di sì. Era la prima volta che si sentiva in colpa nei confronti di qualcuno, specialmente nei confronti di qualcuno che non era mai esistito come Elwood. Credeva di aver capito la traiettoria del romanzo, che poi era la traiettoria di un certo modo di pensare, per cui se sei buono e ben disposto verso di te e verso gli altri, coglierai i frutti di quel meticoloso lavoro. Ma P. aveva sbagliato a liquidare Elwood così in fretta: niente di semplice dimorava in quel cuore.
P. aveva ragionato per mesi su quel sentimento privo di cattiveria che animava il protagonista del romanzo, lo aveva trovato irrazionale e totalmente irrealistico. Non lo concepiva all’interno di una società diseguale e razzista come erano gli Stati Uniti negli anni ’60 né lo riteneva possibile all’interno di un carcere, di quel carcere.
L’umiliazione, più delle botte, distrugge l’esistenza. Per questa ragione P. aveva continuato a leggere, per vedere fino a che punto il sistema poteva spingersi prima di piegare Elwood, quel ragazzo al primo anno di università dall’animo gentile.
P. parlava rivolgendosi alla classe, in quel primo giorno di settembre, muovendo le mani delicatamente sopra il banco, quasi si trovasse davanti al giudice che tre anni prima lo aveva condannato.
Elwood, concluse P., seppe sottrarsi alla devastazione del potere segregante e per questo morì. Noi non ci siamo riusciti e per questo sopravviviamo, sperando di arrivare integri fino a domani.
«Era una follia scappare ed era una follia non scappare. Come poteva un ragazzo guardare oltre il confine della proprietà, vedere quel mondo vivo e libero e non pensare di evadere? Per decidere del proprio futuro, una volta tanto. Sopprimere ogni idea di fuga, anche un’idea così, effimera come una farfalla, significava uccidere la propria umanità». C.W.
(Il racconto di P.* è ispirato alle storie di alcuni ex giovani adulti detenuti coinvolti in laboratori editoriali ed è stato scritto dopo i fatti del Beccaria)
Marica Fantauzzi è nata a Roma nel 1992. Ha scritto per «il manifesto», «il Dubbio» e «la Repubblica» in particolare sulla detenzione femminile e minorile e sulle condizioni dei campi monoetnici in Italia. Lavora con «A Buon Diritto» nell’ambito delle ricerche sui diritti umani in Italia. È redattrice di «Sveja» podcast e coautrice, con Valentina Calderone, di ‘Il carcere è un mondo di carta’ per Momo Edizioni.