La Corte di Cassazione ha stabilito che Davide Emmanuello, detenuto nel carcere di Sassari in regime carcerario del 41-bis, ha diritto a incontrare Clare Holme, la donna italo-inglese con cui dal 2008 ha un rapporto epistolare da cui è nata una relazione sentimentale.
Voci di dentro ne aveva parlato nel n. 49, ottobre 2023, (pag. 37) con un articolo di Clare Holme dal titolo “amo un fantasma” e che allora per tutelarla, come ci era stato chiesto, avevamo omesso il nome. E ancora prima, della vicenda di Emanuello ne avevamo parlato nel n. 36, marzo 2021, (pagg. 38-39) con un articolo di Francesca De Carolis.
Riportiamo entrambi gli articoli
"Amo un fantasma". Mi è stato suggerito di partire da questo titolo per scrivere della mia esperienza. Lo guardo - il titolo- e le labbra mi si increspano in un sorriso. Avete mai sentito parlare di un fantasma che deve stare attento al colesterolo? No? Neppure io. E quindi penso all'amore mio che, quando io scrivo “[sto] male", mi risponde subito "non piagnucolare". Perché "amo un fantasma".
in realtà mi riporta alla casa di mia madre, così vuota dopo che mio padre morì, e alle lettere di lei che trovai nascoste perché non si potevano imbucare… mentre le mie vanno di là del mare e -se arrivano nel cimitero dei vivi- è in mano ad un uomo che arrivano, sebbene aperte, già lette, passate per molte mani...
Fantasma: qui è la responsabilità di chi dovrebbe prevedere il diritto all'affettività, al coltivare rapporti sani e invece nega colloqui, si impone come mastodontico apparato con tempi da lemure e il cervello di una medusa...
Parlando di fantasmi, mi capita di parlare con quelli dei due grandi giudici che pensarono il “carcere duro”, il 41-bis. Un dialogo in cui mi capita di dire: "ma vi rendete conto di cosa hanno fatto del vostro lavoro? Un sistema per annullare l'uomo! Dovreste andare a parlare di notte all'orecchio dei vostri colleghi e dirglielo di avere il vostro coraggio di stravolgere tutto, guardare in faccia ciò che accade!". Saranno deliri di chi apparecchia per uno e dorme da solo in attesa che qualcosa cambi?
Ogni missiva comincia con la dicitura "dal regime persecutorio - sistema di tortura" - non ci stanno fantasmi la, mostri nemmeno, solo uomini a cui è stato rubato persino il pensiero di un futuro e sono stati sepolti nel cemento per essere eternamente pericolosi a priori, secondo alcuni perché sono mafiosi e "un mafioso smette di esserlo quando muore perché può uccidere solo con un gesto degli occhi". A costoro mi verrebbe voglia di dire: "e ne sei sicuro? Ci sei andato a parlare? Hai visto come vivono? Hai visto come perde il senno e la salute chi senza più nulla sta nel nulla ad aspettare che sopraggiunga qualcosa, fosse anche la morte?".
L'amore ti arriva -hanno detto- come un fulmine che fa stramazzare al suolo. È vero e non è vero, perché il mio ha avuto bisogno di tempo per capire che con "un fantasma" ci si può stare anche se non ci stai. A vent'anni forse non ci sarei riuscita. Troppo forte la spinta di fare cose usuali per un uomo e una donna, come mettere su famiglia o semplicemente appropriarsi della carne, del respiro dell'altro per sentire di averlo accanto. Ma - scusate il francesismo- ho mangiato abbastanza merda e ho preso abbastanza botte per capire chi vale davvero e decidere di tenermelo anche se per ora sono i nostri inchiostri a rincorrersi, farsi dialogo, offrirsi carezze, baci e quel sostegno, quel rispetto, che altrove non ho trovato.
Pensare che ci siamo evitati per anni perché fa paura pensare di amare qualcuno che non puoi vivere, non puoi stringere, con cui non puoi fare nulla se qualcun altro, molti altri, non ti autorizzano. Altro sorriso: penso all'amica che quindici anni fa mi diceva "sembri una medium. Parli con gente che non c'è". Intanto lei è morta davvero e noi siamo ancora qua a dialogare oltre la distanza e le condanne, i muri e i pregiudizi, l'assenza di speranza imposta da una situazione che più che giustizia mette in atto vendetta e piace tanto alla politica e a quel popolino che si ciba del sangue del capro espiatorio di turno in un paese che rifiuta di guardare al suo passato e metabolizzarlo, si rifiuta di farlo proprio, e deve dare a qualcuno la colpa facendone un cattivo per sempre.
E niente… forse ci vuole un'inclinazione al viaggio, all'avventura, per amare "un fantasma". Di sicuro ci vuole la tenerezza e il piede di porco, la spranga e uno zaino capiente e il coraggio di mettersi a nudo togliendo ben più che i vestiti. Se in molti riescono a non pensarci riempiendo le giornate di impegni e cose da fare, per noi due le grandi domande sono sempre presenti: "chi siamo? Dove stiamo andando? A cosa serve?".
No, non amo un fantasma. Amo un uomo che, dopo tre decenni al 41-bis, avrebbe il diritto di trovare una strada per tornare alla vita, per spendere nel mondo, tra gli altri, le conoscenze che tanti anni di sepoltura gli hanno dato. E sono in molti coloro che potrebbero diventare "fari che permettono ad altri di non finire sugli stessi scogli su cui loro sono andati a sbattere". Al mio fantasma che si definisce diversamente vivo, viene imposto però di mettere un altro al proprio posto, di attuare una "collaborazione" come se dire chi fosse con te quando hai fatto qualcosa di sbagliato ti sollevasse dalle tue responsabilità facendole ricadere sull'altro e attuasse quel pentimento che sappiamo tutti essere fatto interiore.
E se lui avesse ragione quando afferma di non essere mai stato quello di certe narrazioni stampate nero su bianco e gridate dai fogliacci che delle vittime e dei carnefici fanno solo svendita?
Ci siamo trovati, io e lui, come due bimbi che dopo un cenno di saluto, cominciano a giocare assieme e giocando a parlare e parlando a capire e capendo ad amare. Ci incontriamo nei sogni e la nostra casa è di carta ma siamo più vicini di tanti che dividono il letto ed il resto. E ciò non impedisce di ospitare chi arriva a bussare in cerca di riparo da tempeste o solitudine, che viva il nostro dramma o altri o semplicemente voleva un caffè. L'hanno capito gli amici che con infinita delicatezza, nell'assenza, vedono una coppia come tante, due che si vogliono proprio bene. Io gli presto i miei occhi per vedere fuori e ricordarsi che è al mondo, lui è il mio porto sicuro e si assicura che al mondo mi resti voglia di starci.
Abbiamo imparato a volare più in alto delle aquile e degli aerei e a scendere a profondità impensabili e ancora cerchiamo un sentiero per uscire dal labirinto che altri uomini hanno creato e assomiglia tanto a luoghi che gli uomini avevano giurato non sarebbero mai più esistiti, quelli dove i corpi si fanno cenere nei forni e certe ragioni diventano il torto più grande. Non so se l'ho detto bene, so solo che gli voglio bene, anzi di più, molto molto di più". (Clare Holme)
Io diversamente vivo di Francesca De Carolis
“E’ vero, le mafie hanno bisogno del buio per meglio agire, e per questo bisogna parlarne. Ma da quando conosco qualcosa di carcerazioni, sono sempre più con vinta che bisogna cercare di fare luce anche su quello che ne è di coloro che poi finiscono entro le mura delle nostre carceri, perché non è cosa che può essere indifferente, a chi crede nella giustizia di uno stato di diritto, quello che lì dentro avviene, soprattutto nei regimi differenziati. Con un’avvertenza: quando si comincia a conoscere un nome, pensare un volto, seguire un per corso, non è facile scrollarsi di dosso il buio dal quale a tratti quella storia emerge...
Così è stato per me a proposito di Davide Emmanuello. Di lui ho iniziato, per quel che è stato possibile, a interessarmi, dopo una notizia che allora mi sembrò “bizzarra”. A Davide Emmanuello, di Gela, in prigione dal 1993 e da allora quasi ininterrottamente in regime di 41bis, era stata vietata la lettura del romanzo di Umberto Eco, “Il nome della rosa”. Libro ritenuto “pericoloso per l’ordine e la sicurezza”, raccontava la denuncia arrivata a un quotidiano dal carcere di Ascoli Piceno, nel quale allora Emmanuello si trovava. E’ in seguito arrivata una vaga smentita, e l’ipotesi di un divieto motivato dalla pericolosità “materiale” del libro (nei regimi differenziati non entrano libri con copertina rigida) piuttosto che dai contenuti. Poi una più decisa smentita l’ha fatta il Dap. Ma questi sono dettagli.
La realtà, su cui ho iniziato a interrogarmi, sono le 23 ore di isolamento al giorno, la sola ora d’aria (e le tre persone al massimo con cui è possibile parlare in quell’ora), le finestre delle celle schermate, la sola ora al mese di colloquio con familiari (con vetro divisorio) alternativa a dieci minuti di telefonata, il divieto di cuci nare cibi, la censura di posta e libri... e se i libri rimangono l’unica forma di “resistenza” alla deprivazione sensoriale a cui si è sottoposti, ho provato a immaginare cosa sono, a cosa servono e dove possono portare tanti anni di nulla... Perché se di quello per cui è stato condannato Davide Emmanuello (di lui come delle centinaia di altri in regi me di 41bis) è possibile andare a leggere negli archivi dei quotidiani, poco si dice, e a nessuno sembra interessare, di quel che accade dopo che si chiudono le porte di un carcere e si entra nei suoi gironi.
Alcune immagini di questo inferno mi si sono svelate con lettere che Emmanuello ha scritto negli ultimi anni. Lettere tremende.
“Continua il mio viaggio nelle viscere degli inferi. Sono rassegna to e consapevole che questo luogo voluto per l’annientamento non sopprimerà il mio corpo, ma agirà sulla psiche e attraverso la coscienza farà dell’anima l’inferno del corpo. L’istituto è moderno, non in senso illuminato, ma di nuova riproposizione oscurantista del supplizio come pena. In pratica un “ecomostro” per soggetti trattati al di fuori dei canoni dell’esperienza etica della libertà e dei diritti umani. L’apparente agibilità estetica del nuovo nasconde lo squallore degli spazi ridotti e claustrofobici, ordinati in senso verticale cosicché allo sguardo è tolto ogni orizzonte così come alla speranza di libertà la pena ostativa ha posto la parola fine. Ho solo un piccolo cielo che dal sotterraneo intravedo alzando lo sguardo in verticale: il cielo del passeggio. Un cielo chiuso in un passeggio e nient’altro. Tutto è colorato di bianco e un verde quasi turchese, colori che servono a mascherare la realtà macabra del grigio cemento e del suo impiego contro l’uomo. Doccia in cella, palestra, passeggio e nient’altro. Sto cercando di adattarmi, ma per adesso stanno prevalendo gli aspetti patologici che mi affliggono. Spero di no, ma non nascondo che se così fosse questo posto per la mia salute diverrebbe una tomba. Comunque sia sono speranzoso nella mia capacità d’adattamento. Per adesso sono senza tantissime cose, e in particolare mi mancano le mie letture. Il guaio è che la biblioteca ancora non esiste e non si sa se e quando entrerà in funzione(...)”.
Questo Emmanuello scrive dal carcere di Bancali (Sassari) nel luglio del 2015, appena vi è trasferito. Tranquilli, nulla di trafugato o illegale. Le lettere sono tutte regolarmente passate al vaglio della censura, come da regolamento. Le lettere di Davide Emmanuello non potevano restare “una cartella” sulla mia scrivania. Cercando qualcuno che fosse in grado di ascoltare davvero e con quest’urlo confrontarsi, le avevo spedite a Pino Roveredo, scrittore, ex Garante dei detenuti del Friuli Venezia Giulia. Se ne è lasciato straziare e vi ha risposto con la potente scrittura di cui è capace. Così è nato il libro a loro firma. “Diversamente vivo, lettere dal nulla del 41bis”.
Un chiarimento. Certo che al crimine va posto argine e lo stato deve rispondere con misure appropriate quando ha di fronte organizzazioni che sanno anche farsi anti stato. E il colpevole deve rispondere del reato commesso. Non è questo che è in discussione. Ma per quanto terribili possano essere state le colpe per cui si è condannati, continuo a pensare che nulla giustifichi, in uno sta to che pretendiamo di diritto e civile, la tortura fisica e psicologica che il 41bis comporta, quello che nella relazione in proposito fatta dalla Commissione diritti umani del Senato, dopo due anni d’indagine conoscitiva, viene definito “surplus di afflizioni, privazioni e restrizioni che non sembra aver ragione d’essere nella logica prima ancora che nella legge”.
E come fare a meno di interrogarsi sulle centinaia di persone “ristrette” in questo regime, di cui non cono sciamo parole, che non hanno la capacità e la possibilità di trovare in letture colte come quelle che fa Emmanuello (molto legge di filosofia)… appiglio per non naufragare in quell’abisso che il 41bis nella sostanza è. Come non pensare a quanti ne muoiono, alla mistificazione secondo la quale la nostra presunta sicurezza vale tanto spregio. E non importa se (come pure accade) ci va di mezzo qualcuno che proprio boss dei boss non è mai stato, se non addirittura qualche innocente...
Qualche anno fa, durante un convegno su ergastolo e dintorni, fui avvicinata da una ragazza che mi parlò della triste vicenda di un suo zio, che trasportava carichi di arance per conto di persona che, rivelò un’inchiesta, trafficava droga, nascondendola, appunto, nei carichi di arance. “Mio zio, non sapeva, ma aveva capito... capiva e non capiva... cosa doveva fare? Era il lavoro che aveva trovato”. Finito nell’inchiesta sull’organizzazione di trafficanti, ha passato più di dieci anni in regime differenziato. “Ne è uscito come impazzito. Ora è depresso, in casa, la moglie lo tiene lì per pietà, è un uomo finito. Ne ho una gran pena”.
Capisco, adesso, le parole degli avvocati della Camera penale di Roma, quando ricordano che il 41bis è misura giustificata con la necessità di recidere i legami con l’associazione di appartenenza, ma, aggiungono, se lunghi anni non bastano a recidere quei legami, c’è qualcosa che non va: o il sistema non funziona o vuole ottenere altro... Certo, il 41bis ha prodotto negli anni ‘90 molti “pentiti”. Oggi, a leggere i dati, sembra produrre meno pentiti e molti suicidi (ma nessuno ne parla).
Tornando a Emmanuello, che forse innocente non è stato, ma la sua è storia ben emblematica... Non entro nel merito dei provvedimenti di riapplicazione del 41bis dopo che il regime per ben tre volte gli era stato revocato dalla magistratura di sorveglianza, ma se si suppone che in 18 anni di 41bis abbia mantenuto saldi rapporti con l’organizzazione criminale d’origine, evidente mente il sistema non funziona o, per ottenere un non dichiarato “altro”...
“Sopravvivo nel fondo di un pozzo in condizioni indegne pe desiderare di vivere e la morte è la speranza che mi conforta. Immaginami dietro un blocco di cemento per quattro persone isolato ermeticamente nel fondo di un pozzo. In questo fondo cella e passeggio hanno in comune la finestra per cui il fazzoletto di cielo del tetto del passeggio si intravede dalla cella. In pratica non ho uno spazio orizzontale verso cui guardare come avviene quando ci si affaccia dai piani “alti”. Di fronte la cella ho la saletta. Cioè faccio un passo ed entro nella saletta (un contenitore profondo che prende luce da uno pseudo lanternino al soffitto), altri due passi ed entro nel passeggio. Chiuso ventidue ore al giorno, sotto posto a un trattamento paranoico che moltiplica gratuitamente le afflizioni: l’acqua è gialla, e quella potabile la beve solo chi può acquistarla, il vitto è calibrato come da tabella Ministeriale e quindi la quantità è disperante, e si sazia chi può acquistarne ...”, scrive sempre dal carcere di Bancali.
E chi le sezioni del 41bis (ma anche dell’alta sicurezza) ha visitato, sa del massiccio uso che qui si fa degli psicofarmaci. Non credo ci sia una scala del male per cui, oltre un certo gradino, si possa derogare a tutto. Se questo avviene, ed è quello che avviene, il risultato è una sorta di eterogenesi dei fini... perché c’è un momento nel tempo dell’esecuzione della pena in cui, per tempi e modi, anche il peggiore dei colpevoli sente di aver pagato il suo debito, e tutto il resto è vissuto (comprensibilmente a mio parere) come afflizione estrema, illogica e illegale.
Ancora, per capire, stralci di lettere di Emmanuello:
“… Così trascorrono giorni senza lasciare altro che ombre. (...) In un luogo privo di stimoli sensoriali in cui gli spazi sono claustrofobici le patologie proliferano, quelle mentali si amplificano e l’instabilità emotiva diviene il denominatore comune della vita psichica. In questa realtà della mia salute rimane ben poco; vivo stati di panico continui. La pressione arteriosa è da infarto e non trovo rimedio farmacologico. Purtroppo, non riesco ad adattarmi alla struttura priva di finestra. Anche la fretta che tutto passi subito non ha alcun senso, visto che tutto è identico a se stesso”.
Diversamente vivo”, si definisce Emmanuello. Ed è definizione che penso per tutti quegli altri di cui non arrivano lettere, che non hanno sostegno di alcun genere, tanto meno quello culturale che tanto colpisce nelle parole di Emmanuello. Se il carcere finisce con l’essere, in generale e nonostante l’impegno di tanti che nelle carceri operano, area di sospensione del diritto, qui si entra davvero nel girone più profondo dell’inferno dei sepolti vivi, dove il tanto proclamato fine rieducativo della pena è cosa, penso si possa dire, “per definizione” esclusa dagli intenti. Certo che al crimine va posto argine e il colpevole deve rispondere del reato commesso. Ma rimane un dubbio: le parole “criminalità”, “mafia”, “legalità”, persino, sembrano diventate parole d’ordine per dare il via libera all’annullamento dei diritti fondamentali dell’individuo. Ma sono convinta che negare i diritti fondamentali al peggiore di noi è cosa che corrode, prima che il senso d’umanità, il senso della nostra stessa civiltà.