Riproponiamo un articolo di Eric Salerno pubblicato sul numero 51 di Voci d dentro
La chiave per arrivare alla pace in Medio Oriente, tra israeliani e palestinesi, forse è proprio nelle carceri israeliane. L’uomo, lo hanno, lo abbiamo definito molte volte il Mandela dei palestinesi. E anche se ogni anno che passa la pace stessa diventa sempre più difficile, paradossalmente la situazione che si è creata dopo il feroce, criminale, assalto dei militanti di Hamas e di un numero imprecisato di civili palestinesi che si sono uniti al massacro di donne, bambini e uomini israeliani a ridosso della striscia di Gaza e l’assurda, criminale, incivile risposta israeliana, ha gettato la base per un nuovo tentativo di fare convivere in pace le due popolazioni in guerra.
Itzhak Rabin disse anni fa che la pace si fa con i nemici e Marwan Barghouti, leader del partito Fatah, oggi è il simbolo vivente del popolo palestinese. Fu arrestato da Israele nel 2002 e sta scontando cinque ergastoli per aver pianificato, secondo l’accusa, tre attacchi terroristici durante la Seconda Intifada: morirono cinque israeliani. I leader di “domani” sono stati spesso i “terroristi” di ieri. Mandela è un nome saltato fuori di frequente da quando Barghouti è apparso sulla scena della lotta palestinese. Arafat e i suoi compagni rappresentavano la vecchia guardia: troppe volte sono stati incapaci di capire che il mondo stava cambiando, che la lotta armata era inutile contro la forza militare israeliana.
Quando gli dissi, in un incontro a Ramallah dopo l’11 settembre e l’attentato alle torri gemelle di New York, che la lotta armata, il terrorismo, erano diventate delle brutte parole e avrebbe dovuto scegliere strade e parole più adeguate al momento per continuare la sua lotta, mi disse: “Ci penso”. Il suo successore, l’attuale presidente dell’Autorità palestinese, era da molti anni contrario alla lotta armata, spesso litigava con Arafat, ma è invecchiato e il suo popolo - in Cisgiordania come a Gaza - non è ancora libero. Molti consideravano Barghouti il probabile suo successore. Dopo il suo arresto e condanna più di una volta è stato indicato come il futuro leader dei palestinesi: l’uomo che avrebbe portato alla pace tra arabi e Israele. Qualcuno volle anche fare un paragone tra i grandi leader che parteciparono alla fondazione dello stato creato dagli ebrei. E che poi per molti anni lo guidarono. Se cercate sul web trovate ancora le foto segnaletiche di Begin e Shamir: erano wanted per terrorismo dalle autorità britanniche. Avevano lottato con le armi e le bombe quando la Palestina era sotto il controllo della Corona. Non furono mai incarcerati.
Entrambi sono stati primi ministri. A dicembre Barghouti fu trasferito nell’ala di isolamento della prigione ad Ayalon. Era stata rilasciata una dichiarazione a suo nome in cui si chiedeva alle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese di seguire Hamas e di combattere contro Israele. Non era stato lui e chiese a un tribunale israeliano di costringere le autorità a fare un passo indietro anche perché era sottoposto a continui maltrattamenti da parte delle guardie: veniva ammanettato ed era nudo durante perquisizioni della sua cella; il cibo era insufficiente; le finestre oscurate; era costretto a dormire per terra, senza materasso. Barghouti non è più giovane, ha 64 anni, ma piace ai più giovani, che lo percepiscono come non contaminato dalla corruzione dell’Autorità Palestinese e dalla collaborazione con Israele.
Il suo nome sarebbe in cima alla lista dei prigionieri palestinesi di cui Hamas chiede il rilascio in cambio degli ostaggi israeliani. Secondo un recente sondaggio del Centro palestinese per la politica e la ricerca, Barghouti vincerebbe nuove elezioni per la guida dell’Autorità palestinese con un ampio margine sia contro i candidati del suo stesso partito Fatah che contro il leader di Hamas Ismail Haniyeh.
Barghouti è un uomo, un leader, una pedina importante. Ma, per alcune delle persone incaricate di decidere che tornerà libero nell’eventuale scambio di prigionieri, solo una carta. Se non fosse tragica la situazione, i negoziati in corso potrebbero assomigliare a qualche gioco da tavolo, di quelli che piacciono a grandi e piccoli. Uno scambio di carte, o figurine. Tre dei miei, rossi, valgono uno dei tuoi nero; due dei miei colore verde sono l’equivalente a una decina dei tuoi bianchi. Alla fine, forse, nessun vincitore ma due soddisfatti. Secondo le cifre fornite ai primi di gennaio, Israele detiene 7.939 detenuti di “sicurezza”, di cui 2.114 prigionieri condannati, 2.534 detenuti in custodia cautelare e 3.291 detenuti amministrativi trattenuti senza processo e altri 661 combattenti. Gli abusi nei loro confronti sono aumentati dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani Ha Moked il numero di prigionieri detenuti per motivi di sicurezza nazionale è salito del 66% a 8.600 a gennaio da 5.192 a ottobre. Secondo uno di loro, Ramzi Abbasi, 30 anni, arrestato la primavera scorsa e accusato di comunicare con un gruppo affiliato ad Hamas – accuse che nega - la vita nella prigione di Ktzi è peggiorata dopo che 1.200 israeliani sono stati uccisi e 240 presi in ostaggio durante gli attacchi di Hamas. “La nostra vita è diventata zero. Non significavamo niente per loro”, ha detto Abbasi, ora rilasciato, nel cortile della sua casa a Gerusalemme est con vista sulla Città Vecchia. “Ci hanno trattato meno degli animali. Picchiare, abusare, torturare, tutto ciò che potresti immaginare”.
Abbasi ha affermato alla televisione americana di essere stato torturato e di essere stato testimone di altre torture, comprese aggressioni sessuali. E di aver visto le guardie sodomizzare i suoi compagni di cella con i manganelli. I legislatori israeliani hanno più volte modificato in peggio le condizioni carcerarie dei prigionieri.
“Ciò che abbiamo visto nel servizio carcerario ora è vendetta”, ha detto Tal Steiner, avvocato e direttore esecutivo del Comitato pubblico contro la tortura in Israele, un’organizzazione non governativa israeliana che segue il trattamento dei prigionieri palestinesi. Vendetta, da una parte, e aumento dello stock: ossia Israele lascia scaricare i propri fallimenti sui carcerati ma aumenta il numero dei prigionieri in modo di aver a disposizione un maggiore numero di “pedine” quando comincerà la prossima partita del gioco con Hamas: lo scambio ostaggi-incarcerati.