<p>Certo che sarebbe preferibile investire nelle scuole piuttosto che fabbricare cannoni ma se non hai i cannoni come le difendi le tue scuole?”. Questa citazione la traggo da uno dei tanti editoriali bellicisti pubblicati nelle ultime settimane sulla “grande stampa” italiana. Se sperate che fosse un grido di dolore per le università di Gaza rase al suolo dai bombardamenti israeliani vi sbagliate di grosso. L’editorialista non si preoccupava in alcun modo per il futuro scolastico dei ragazzi palestinesi sfuggiti ai “missili intelligenti” di Tel Aviv. Come molti altri opinionisti puntava invece esclusivamente a sostenere la necessità di un massiccio riarmo dell’Occidente (qualunque cosa tale definizione voglia dire) che deve mobilitarsi per difendersi dai suoi nemici.</p>
<p>È questo del resto lo schema interpretativo che ha dominato in questi anni la comunicazione nel nostro paese. Il popolo italiano dovrebbe sentirsi sempre più in pericolo e rassegnarsi davanti a una inevitabile “riconversione bellica” della economia nazionale. E la spesa sociale? Quella si taglia perché non è una priorità, questo è il tempo in cui dobbiamo sacrificarci per la Patria.</p>
<p>Ovviamente si tratta di ideologia allo stato puro, sono discorsi intrisi di contraddizioni e slegati dalla realtà, in cui non si capisce nemmeno per che cosa stiamo combattendo. Ci battiamo per il “mondo libero” come si diceva ai tempi della Guerra del Vietnam? In realtà quelli che puntano a dominare la sfera pubblica nazionale (politici o opinionisti che siano) sono tormentati soprattutto da un dato di fatto: ogni volta che ha potuto esprimersi liberamente la grande maggioranza degli italiani si è detta chiaramente a favore della pace e per una soluzione diplomatica dei conflitti. E se questo orientamento emergesse pure nei prossimi appuntamenti elettorali? Per tale ragione questi personaggi mettono le mani avanti.</p>
<p>Dicevamo che si tratta di un approccio ideologico e strumentale, non suffragato da elementi concreti e verificabili. Lo dimostra la realtà delle cose che è completamente diversa da quella che ci viene venduta dalla propaganda bellicista. Basta dare un’occhiata agli ultimi dati resi pubblici a fine aprile dal Sipri, l’Istituto Svedese che monitora quanto si spende in armamenti nel mondo.</p>
<p>Nel solo 2023 le spese militari hanno raggiunto la incredibile cifra di 2443 miliardi di dollari con una crescita di quasi il 7% rispetto all'anno precedente. E sapete chi è in testa alla classifica? Gli Stati Uniti con 916 miliardi pari al 37% del totale. È vero che sono seguiti dalla Cina con 296 miliardi e dalla Russia con 109, ma fra i primi 15 paesi che investono in armamenti ben 12 (l’India la consideriamo neutrale) sono comunque alleati degli americani. E l’Europa? Sommando insieme soltanto Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e Polonia si arriva a 270 miliardi, aggiungendo gli altri della UE superiamo i 350.</p>
<p>Ma di che parliamo allora? Di un Occidente disarmato? Stiamo scherzando? In poche parole un frenetico riarmo è già in atto ovunque, senza eccezioni. Sul piano globale il 2,3% del prodotto interno lordo mondiale viene bruciato in questa corsa forsennata per aggiornare gli arsenali. Una cifra mostruosa che condiziona la vita del pianeta. E qui le questioni che si aprono sono veramente tantissime, basta allargare lo sguardo. In primo luogo siamo o non siamo coinvolti in una crisi climatica pesantissima che richiederebbe enormi investimenti nella riconversione energetica? Dov’è finita questa emergenza? La risposta dovrebbe giungere da una “umanità cooperativa” capace di coordinare gli sforzi in una gigantesca operazione di salvataggio della vita sul pianeta. Non è dunque di “solare evidenza” che stiamo facendo esattamente l’opposto sviluppando invece strumenti di distruzione in un clima di crescente reciproca ostilità? È tutto un meccanismo concatenato.</p>
<p>Per capirlo bisogna guardare pure a ciò che accade sui mercati. In borsa stanno guadagnando in modo esponenziale tutte le grandi compagnie legate al “comparto della difesa”. Solo in Italia abbiamo una azienda come Leonardo (principale azionista il Ministero dell’Economia) che è un gigante del “complesso militare industriale. Guidata da politici di varia provenienza (ci sono pure ministri e ex ministri) si occupa di aerei, elicotteri, sistemi d’arma. La sua ultima “trimestrale di cassa” ha presentato numeri da capogiro: ordini per 43 miliardi, commesse in crescita del 18%, 3,6 miliardi di ricavi in soli 3 mesi, il 20% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Chi la ferma una corazzata del genere?</p>
<p>Ma è tutto il meccanismo che si muove all’unisono. Con i titoli di borsa legati agli armamenti vanno splendidamente anche gli energetici perché le tensioni internazionali aumentano sempre il valore delle materie prime. E poi c’è la dinamica intrinseca alle logiche della finanza. A fine febbraio le banche etiche hanno lanciato l’allarme segnalando come la produzione e il commercio delle armi fossero supportati dal sistema creditizio mondiale con finanziamenti pari a 959 miliardi di dollari. Hanno anche presentato a Milano un manifesto appello per una finanza di pace chiedendo alle altre banche di smettere di finanziare la guerra e promuovere invece progetti utili alla umanità. Ne ha parlato qualcuno?</p>
<p>E qui arriviamo a un passaggio ulteriore che riguarda l’informazione, o meglio la rappresentazione mediatica dei conflitti che ci assediano e rendono sempre più precario il nostro futuro. L’insoddisfazione verso quanto ci viene raccontato è diffusa e trasversale. Da una parte c’è l’oscuramento dell’enorme costo umanitario dei conflitti in corso (che non sono certamente soltanto due oggi nel mondo, basti pensare a Sudan, Congo, Birmania di cui non parla praticamente nessuno). Dall’altra ci sollecitano a diventare indifferenti davanti alle stragi, ai massacri, ai genocidi. Dovremmo soltanto schierarci dalla parte giusta. Se gli chiedete con chi in Sudan (dove i morti si contano a migliaia e gli sfollati sono otto milioni) cosa vi rispondono? Non hanno niente da dirvi perché sfugge totalmente alla comprensione di questo genere di propagandisti che la guerra è come una sorta di metastasi, si diffonde ovunque se tu delegittimi le Istituzioni Internazionali (leggi Nazioni Unite) che potrebbero proporre/imporre soluzioni diplomatiche.</p>
<p>Ma restando ancorati soltanto alla dimensione economica degli eventi, perché siamo arrivati a questo punto? All’inizio del secolo i governi e i “media dominanti” si vantavano dei successi e del “radioso futuro” della globalizzazione. Tornate con la mente ai fatti del 2001, ai brutali pestaggi inflitti ai dimostranti di Genova. Quell’evento si chiamava G8, oggi gli stessi vertici li chiamano G7. Chi si è perso per strada? Perché la Russia allora era considerata un partner e ora un nemico? Perché, su un altro piano, la Cina da celebrata “fabbrica del mondo neoliberista” per il suo basso costo del lavoro è ora diventata un rivale pericolosissimo? Ci sono di mezzo le giravolte del capitalismo americano, gli enormi debiti pubblici e deficit commerciali, il ritorno a irrigidimenti protezionistici. Tutte cose su cui i media spendono pochissima attenzione come se fra conflitti e movimento dei capitali, interessi commerciali, non ci fosse alcun rapporto: ma davvero pensano che la gente sia così stupida da non avvertire i ridicoli schematismi di certe rappresentazioni mediatiche?</p>
<p>Diritti umani, libertà di espressione, rispetto della volontà popolare sono valori da sostenere sempre e ovunque nel mondo. Ma con il cupo clima di una guerra infinita e senza obiettivi precisi (la sconfitta di una super potenza nucleare come ve la immaginate?) sono le democrazie a diventare sempre più simili alle dittature, non il contrario.</p>
<p>E sullo sfondo c’è, lo dicevamo, il futuro dello stato sociale. Pensano a tagli sempre più consistenti nella sanità pubblica e nell’istruzione? A una spesa pubblica concentrata nel campo degli apparati militari e repressivi? Come governeranno un peggioramento delle condizioni di vita del ceto medio? Sono tutte domande aperte.</p>
<p>E in Italia per certi aspetti siamo messi peggio che altrove. Salari e stipendi sono fra i più bassi, il precariato dilaga, la sicurezza sul lavoro è inesistente. Pare vigere in tutto e per tutto la legge del più forte, gestita con estremo cinismo. Un misto di “populismo posticcio” e di autoritarismo che può diventare brutale verso forme di protesta e verso gli ultimi ai quali pare essere riservato nei fatti l’utilizzo del codice penale.</p>
<p>Quanto può durare questa situazione? La storia ci insegna che il punto di rottura arriva quando gli elementi di insoddisfazione sociale si saldano. Poi molto dipende dalla credibilità dei soggetti politici in campo ma i “manganelli mediatici” potrebbero non essere sufficienti a tenere sotto controllo l’opinione pubblica soprattutto quando prenderà coscienza, con l’austerità incombente, che è la prima vittima di questa mobilitazione a favore di una guerra dalla quale non ha proprio nulla da guadagnare.</p>
<p>Roberto Reale è giornalista e scrittore. Il testo è stato pubblicato sul numero 52 di Voci di dentro. </p>