<p>Al Festival di Sanremo 1981, gareggiò una canzoncina demenziale, Ma chi te lo fa fare, che si apriva col proposito di far guerra alla guerra. Il coro chiedeva alla cantante chi glielo facesse fare. Una provocazione in epoca di guerra fredda ed Euromissili. Quarantatré anni dopo, il proposito della canzone andrebbe ripreso, senza chiederci chi ce lo fa fare. Oppure rispondendoci che è necessario per uscire da questo orizzonte piatto, tetro, minaccioso, che incombe sempre di più sulla società contemporanea.<br />
Quattro decenni fa, la divisione in due blocchi e l’equilibrio del terrore su cui si reggeva, facevano sì che il mantenimento della pace, quantomeno nel contesto europeo, rappresentasse una condizione da mantenere. Recentemente ci sembra invece che prevalga la tendenza opposta. I principali quotidiani nazionali, gli opinion makers più di spicco, fanno a gara per sostenere la necessità di “riabituarsi alla logica della guerra”, riecheggiando il grido di battaglia che viene da figure politiche di spicco come il presidente francese Macron, che premono l’acceleratore sul riarmo.<br />
Anche all’interno dei nostri confini le cose non sembrano diverse, dal momento che informalmente, i vertici dell’esercito, avrebbero chiesto al Ministro della Difesa di concedere la cittadinanza a migranti e rifugiati, in cambio della loro disponibilità ad indossare la divisa e a fare da carne da macello al fronte. Ucraina, Palestina o Yemen, chissà. Una misura che ricorda quanto avvenne durante la guerra di secessione statunitense, quando gli emigrati irlandesi che sbarcavano a Ellis Island ricevevano la cittadinanza e la cartolina precetto.<br />
Una guerra, in periodi di crisi economica come quella attuale, seguita alla pandemia, può svolgere una doppia funzione: la prima è quella di rilanciare l’economia riconvertendo la produzione in direzione dell’industria bellica. Non a caso, tra Bruxelles, Strasburgo e Washington, si parla con sempre maggiore insistenza di “economia di guerra”. L’altra funzione è quella di smaltire le tensioni sociali. Aumenta la disoccupazione, la povertà si diffonde all’interno di un tessuto sociale una volta relativamente compatto, centinaia di migliaia di persone che fuggono dalla guerra, dalla miseria, dalle conseguenze dei cambiamenti climatici premono alle frontiere delle aree ad economia avanzata, chiedendo la loro quota della ricchezza prodotta socialmente ma sperperata o distribuita in modo disuguale dal capitalismo estrattivo e finanziario. Una guerra, quindi, consentirebbe di smaltire la popolazione in eccesso, mandandola al fronte ed esponendola al rischio concreto di perdere la vita o di finire in condizioni fisiche precarie.<br />
Riconosciamo che questa ipotesi presupporrebbe un grado di cinismo eccessivo da parte delle classi dirigenti del mondo sviluppato, ma non sarebbe in contraddizione col passato. Per dirla con Michel Foucault, dalla bio-politica, ovvero la costruzione di esistenze gestibili dal potere, passiamo alla necro-politica, ovvero una gestione dei conflitti sociali attraverso la produzione e la diffusione di distruzione e morte.<br />
La satira graffiante di Jonathan Swift, che nel XVIII secolo avanzava la “modesta proposta” di arrostire i bambini irlandesi per consentire all’Inghilterra di avere una popolazione maggiore rispetto alla sua prima colonia, troverebbe applicazione in queste politiche. Oppure, visto la matrice culturale a cui attingono le classi dirigenti nostrane, si potrebbe pensare che ci troviamo di fronte alla guerra vera igiene del mondo di cui parlava Filippo Tommaso Marinetti, padre del futurismo italico.<br />
In ogni caso, sembrerebbe che ci si stia muovendo prepotentemente verso un vero e proprio Stato di guerra, ovvero di un’entità politica che fa proprio l’orizzonte bellico, comprimendo il dissenso, mobilitando l’opinione pubblica attorno a parole d’ordine improntate alla violenza e alla distruzione del nemico e che mira a cancellare ogni tensione verso il rispetto e l’implementazione dei diritti fondamentali. Uno Stato che manda in soffitta definitivamente lo Stato sociale, così come lo abbiamo conosciuto dal dopoguerra agli anni ottanta, che si prefiggeva di integrare strati sempre più vasti della popolazione nel godimento delle prerogative della cittadinanza. Ma, peggio ancora, che rischia di essere peggiore dello Stato penale, ovvero quella comunità politica basata sulla paura dell’altro, il securitarismo, e il governo delle questioni sociali a mezzo delle forze dell’ordine e dell’espansione del sistema penale, che si è affermato in parallelo con l’avanzare dei processi di globalizzazione.<br />
Provando ad abbozzare un modello dello Stato di guerra, la prima caratteristica che possiamo delinearne è quella del doppio fronte, e della doppia mobilitazione che ne consegue. Una volta, se scoppiava una guerra, tutta la popolazione era mobilitata al sostegno dei soldati al fronte. Nel contesto attuale, la mobilitazione si articola su due fronti: quello interno, mobilitato contro una pluralità di nemici dell’ordine neoliberale, e quello esterno, focalizzato sui nemici vecchia maniera. Non a caso, da anni, si assiste all’ibridazione del modello di utilizzo della forza, con gli eserciti che diventano strumenti di polizia internazionale e gli ex-soldati cooptati tra le schiere delle forze di polizia. Un’ibridazione che comincia a partire dalla prima guerra del Golfo (1991), ma che sembrerebbe trovare il proprio compimento nel contesto odierno.<br />
La narrazione della guerra, negli ultimi anni, si è fatta strada attraverso le politiche di gestione della pandemia, col Covid-19 che diventava il nemico da combattere con ogni mezzo, a partire dalla più grande sospensione delle libertà civili e politiche messa in atto dalla fine della guerra in poi. Non si tratta di negare la pericolosità del virus, o di essere no-vax, ma il fatto che una riflessione su questo aspetto, salvo poche voci isolate, non sia mai stata portata avanti, ci sembra essere sintomatico della trasformazione che stiamo vivendo.<br />
La seconda caratteristica dello Stato di guerra, è quella di presuppore e di incentivare l’uniformità delle opinioni e delle pratiche. In altre parole, le libertà di pensiero, di opinione, di riunione, di manifestazione, la diversità degli stili di vita non possono essere tollerate in un contesto di mobilitazione collettiva. Gli ordini impartiti dall’alto non possono essere negoziati o rifiutati, ma, semplicemente, eseguiti. <br />
I sabotatori vanno perciò repressi, attraverso i mezzi repressivi della polizia e del sistema penale.<br />
Ecco spiegati i decreti anti-rave, i manganelli sui manifestanti che da ottobre caratterizzano l’azione della compagine governativa, la criminalizzazione e il tentativo di annichilamento di Alfredo Cospito, il rifiuto di adoperarsi in favore della liberazione di Ilaria Salis, che ha contestato, l’anno scorso, la celebrazione di un atto di guerra nazista in Ungheria. La difformità che viene repressa non è soltanto politica, ma è anche sociale e culturale, e quindi si concreta attraverso la costruzione di classi pericolose che fungano da capri espiatori alla prima occasione utile. Il decreto Caivano, punto di arrivo della criminalizzazione delle fasce giovanili della popolazione, si inscrive all’interno di questo contesto.<br />
Lo Stato di guerra consiste nell’individuare, costruire, additare, nemici potenziali o effettivi, al di là del rischio che comporta la loro presenza all’interno della nostra società. Per questo si eludono in nome della distribuzione disuguale delle ricchezze a livello mondiale, le misure di aggiustamento strutturale imposte da FMI e Banca Mondiale negli anni Novanta, che hanno distrutto le comunità locali africane, causato instabilità politiche, innescato migrazioni. I rifugiati, che fuggono da questo contesto, diventano non le persone a partire dalle quali ripensare un modello economico diverso, bensì i nemici che assediano il nostro fortino del benessere, da respingere attraverso misure estreme. <br />
Il Mediterraneo è diventato un cimitero liquido, contenente le salme di decine di migliaia di disperati che, dopo avere subito violenze e vessazioni di ogni tipo, trovano la morte, anche a causa dei respingimenti delle marine militari e alla persecuzione penale di chi afferma il principio umanitario del soccorso. Addirittura, si costruisce il pericolo rappresentato dai rifugiati a partire da una narrazione complottista, che fa riferimento a un presunto “piano Kalergi” che prevederebbe la sostituzione etnica degli europei con popolazioni di origine asiatica o africana. Una rappresentazione tossica, che, purtroppo, fa breccia anche tra persone che, fino a poco tempo fa, si collocavano su posizioni opposte a quelle del governo attuale.<br />
Il carcere rappresenta l’ultimo piano di articolazione dello Stato di guerra. La sicurezza riguarda l’incolumità personale, costantemente messa a rischio dai nemici altri da noi: migranti, rifugiati, sex workers, attivisti politici, LGBTQIA*, consumatori di sostanze, che introducono elementi distonici rispetto al quadro patriottico-bellico della nazione unita, compatta e mobilitata. Lo Stato di guerra punta a rimuoverli dal tessuto sociale, a buttare la chiave, come si dice, nell’attesa di abolire il reato di tortura e di modificare l’articolo 27 della Costituzione, su iniziativa della stessa premier, affermando che la pena deve tendere alla sicurezza. In guerra, tutto è lecito. Anche, se non soprattutto, violare i diritti fondamentali. Il problema principale di questo contesto, però, è rappresentato dalla mancanza di contrappesi forti, che si facciano carico di contrastare la deriva autoritaria e guerresca del momento. Sulla stampa, sui media, la rappresentazione del mondo come se fosse uno scenario di guerra prevale, sia nelle forme più becere di certe trasmissioni e di certi quotidiani, sia filtrata da educati distinguo di autorevoli opinion makers liberali. Una rappresentazione omogenea, inquietante, segnale dell’egemonia culturale, prima che politica, che i promotori dello Stato di guerra hanno raggiunto. Ecco perché bisogna far guerra alla guerra. Chi ce lo fa fare? Il nostro futuro, innanzitutto. Opponiamoci.<br />
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<p>Vincenso Scalia è Professore di Sociologia della devianza, Università di Firenze; Questo articolo è pubblcato sulla rivista di Voci di dentro, N. 52; Immagine di Barbara Cultrera </p>