Divieto di firma, censure e letture preventive dei testi. Tempi bui per l’informazione dal carcere

06 Apr 2025 Claudio Bottan* zehra dogan

In carcere non sono molte le fonti a cui attingere per chi avesse la malsana idea di provare a scrivere qualcosa di sensato: quotidiani di seconda mano, radiolina e televisione. Chi se lo può permettere i giornali li ordina “in spesa” e generalmente viene fatto a rotazione, una settimana ciascuno. Significa che il quotidiano gira di cella in cella e ognuno ha un tempo prestabilito di lettura, altrimenti non si soddisfano i bisogni di tutti. Ho sempre preferito essere l’ultimo della giornata a ricevere il quotidiano. Anche se nel frattempo era spiegazzato, unto, infarcito di briciole di pane e macchie di caffè, c’era pur sempre una connessione con la vita reale. Potevo trattenere quelle pagine sgualcite, spesso lette in bagno per non dover accendere la luce della cella, senza più limite di tempo. La cartellina in cui conservavo i ritagli con gli articoli che mi parevano più interessanti si andava gonfiando sempre più, un archivio pieno di sottolineature e scarabocchi che prima o poi mi sarebbero tornati utili. Nei fogli dei miei quaderni c’erano appunti apparentemente senza senso: parole lette o ascoltate alla radiolina che temevo mi sfuggissero, altre che mi ripromettevo di approfondire sfogliando un vocabolario e qualche testo, ammesso che mi venisse concesso di accedere alla biblioteca.

Rimanere aggrappati a termini di uso comune, che vadano oltre le litanie della galera, è indispensabile per sopravvivere alla galera stessa. Scopino, scrivano, lavorante, domandina e giornalino. “Appuntato, doccia per favore”. “Appuntato, terapia!” Una manciata di vocaboli biascicati tra le sbarre, che rimbombano negli incubi di chi ha abitato quei luoghi. Il linguaggio si comprime fino a divenire autoreferenziale, «una specie di lingua trasversale, che viene parlata nei penitenziari di tutta Italia, sebbene dell’italiano prenda in prestito la struttura grammaticale e poco più». La formazione di un vero e proprio linguaggio trasforma il carcere in «una logosfera che distorce il tempo, annienta le esperienze, e acuisce la frattura forse inevitabile con la vita libera» scrive su Liber Liberi, nel capitolo Le parole del carcere, il professore di Procedura penale Pasquale Bronzo.

Il bisogno di comunicare, in prigione, è forte. E quando ho intravisto l’opportunità di evadere dalla cella per partecipare alle attività del giornale non ci ho pensato due volte: in quello spazio in cui possono emergere versioni positive della propria identità accanto a quelle che la detenzione cementa e stigmatizza, avrei potuto finalmente dare sfogo all’esigenza di raccontare che, fino a quel momento, si limitava alle decine di lettere inviate ai quotidiani per denunciare le condizioni disumane in cui erano costrette a vivere le persone detenute. “Dillo al direttore” era la rubrica che mi stuzzicava e avevo preso di mira. Pareva surreale: non riuscivo a colloquiare con il direttore del carcere attraverso la trafila delle domandine, ma di là dal muro qualcuno mi ascoltava e pubblicava il grido d’aiuto. È così che sono diventato lo stalker delle redazioni, un inviato al fronte non asservito al sistema.

Scrivere durante la detenzione mi ha reso libero e probabilmente mi ha anche salvato la vita, nel senso letterale del termine. Ho rinunciato a dare il calcio definitivo allo sgabello dopo aver annodato alle sbarre del cesso le solite strisce, del solito lenzuolo, con cui si sono impiccate decine di persone. Sentivo l’obbligo morale di continuare a raccontare tutto il male che vedevo intorno a me, soprattutto per coloro che non avevano gli strumenti per far sentire la propria voce: pestaggi, ruberie, abusi e violenze di ogni genere. L’odore ferroso del sangue, il piscio e il vomito, gli occhi sbarrati delle persone in terapia, il fumo, la ruggine; il freddo d’inverno sotto la coperta bucata e puzzolente, il materasso intriso degli umori dei precedenti inquilini e il caldo torrido dell’estate. Sensazioni che per essere raccontate hanno avuto bisogno di essere vissute. Una missione che spetta agli “inviati al fronte”, coloro che il carcere l’hanno respirato, toccato con mano, annusato; coloro che portano le ferite nel corpo e nell’anima per aver combattuto affinché se ne potesse parlare, scrivere. Mi è costato caro: nove trasferimenti, nove carceri diverse lungo la Penisola, con tutto ciò che ne consegue in termini di relazioni umane e opportunità di accedere a misure alternative. Ma non avrei mai potuto girarmi dall’altra parte.

In carcere scrivere è disturbante, il pensiero critico non è gradito. “Destano perplessità le voci che si colgono nell’ambiente penitenziario di tentativi e iniziative per imporre o vietare la sottoscrizione dei contributi di redattori detenuti alla ‘stampa’ nel carcere, o sulla lettura preventiva di quei contributi” scrive Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia. E, a quanto pare, non si tratta di voci infondate.

Di bavagli, censure e letture preventive dei testi da pubblicare ne sanno qualcosa i volontari dell’Associazione Rosse Torri: “A Ivrea prima hanno vietato ai detenuti di firmare i loro articoli, poi tre mesi fa hanno chiuso la redazione interna del giornale La Fenice e sospeso il permesso dell’ingresso in carcere dei volontari ‘per aver diffuso con i loro articoli un’immagine negativa della vita in carcere’” dice Francesco Lo Piccolo, direttore di Voci di dentro, in un’intervista pubblicata da Professione Reporter. “Avevano scritto di celle fatiscenti, sovraffollamento, mancanza di acqua calda, muffe alle pareti, griglie esterne alle finestre… Più o meno lo stesso è accaduto a Trento a Piergiorgio Bortolotti, responsabile del giornale Non solo dentro: dopo dieci anni di attività come volontario anche lui è stato messo alla porta con due sole parole, ‘non gradito’. Anche Bortolotti aveva scritto e raccontato dell’inefficienza del sistema carcere” prosegue Lo Piccolo. “A Lodi la Direzione dell’istituto pretende una lettura preventiva dei testi elaborati dalla redazione di Altre storie e pubblicati dal quotidiano locale Il Cittadino. Vuole inoltre scegliere gli argomenti sui quali le persone detenute possono scrivere, vietando espressamente temi come l’immigrazione ‘perché potrebbero essere in contrasto con la linea del governo sulla politica nei confronti degli stranieri senza permesso di soggiorno’ o sulla sessualità e sul diritto all’affettività, come di recente ribadito dalla Corte Costituzionale”.

L’art. 21 della Costituzione italiana sancisce il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, senza censure o autorizzazioni, un diritto che vale anche per le persone recluse. Chi si occupa di informazione dal carcere e sul carcere non può chinare il capo. Difendere il diritto all’informazione significa scalfire l’opacità dell’istituzione, significa rendere trasparenti le mura allo sguardo della società. Un passo fondamentale per il rispetto dei diritti di coloro - detenuti e detenenti - che il sistema lo abitano, unica via per arrivare a qualcosa di meglio del carcere.