
Sui pestaggi nel carcere di Trapani ai danni dei detenuti interviene con una approfondita analisi Vincenzo Scalia, professore di sociologia della devianza all'Università di Firenze ( già pubblicato su www.futurasocietà.com )
La vicenda dei pestaggi nel carcere di Trapani ai danni dei detenuti, per i quali la magistratura ha disposto 11 arresti e 57 avvisi di garanzia, sortisce una doppia, contraddittoria, reazione. La prima è quella della mancanza di stupore, perché ormai, da più di un decennio, le torture, i pestaggi, gli abusi compiuti ai danni dei detenuti, hanno conquistato la ribalta delle cronache nazionali. Il primo caso eclatante fu quello di Asti, nel 2012, dove l’inchiesta della magistratura, sviluppatasi per caso, culminò con la scoperta che una delle vittime dei pestaggi venne addirittura scalpato a sangue freddo! Seguirono altri casi, in particolare nel periodo pandemico: Foggia, San Gimignano, Modena (culminato con la strage del Sant’Anna), Cuneo e altri casi che sarebbe, ahinoi, lungo enumerare.
Dall’altro lato, è proprio l’assuefazione a questi fatti, la “normalità” che attribuiamo loro, a suscitare sgomento. L’idea che il carcere sia un luogo di sofferenza, di soprusi, di deprivazione, di mortificazione e oppressione della dignità umana, si è fatta prepotentemente strada negli ultimi quarant’anni all’interno della collettività. Nel caso italiano poi, questa convinzione si è radicata ancora più a fondo a causa di un fraintendimento, molto diffuso anche nella sinistra radicale e comunista, che identifica la giustizia sociale col giustizialismo. Gli scandali relativi alla corruzione politica, le stragi di mafia, hanno contribuito a produrre questo equivoco, tanto che i partiti più votati delle ultime due tornate elettorali, dapprima il Movimento 5 Stelle, quindi Fratelli d’Italia, ne hanno fatto il loro punto di forza.
Effettivamente, sul piano del giustizialismo, i risultati si sono ottenuti. Se nel 1990 i detenuti erano 25.000, adesso siamo arrivati a raggiungere i 62.000. Se a questi sommiamo gli oltre 100.000 che si trovano in regime di esecuzione penale esterna, è come se avessimo una città delle dimensioni di Modena che gravita nel circuito giudiziario-penale. Lo stesso discorso, purtroppo, non può essere sviluppato relativamente alla giustizia sociale, per tre ordini di motivi. In primo luogo, perché le privatizzazioni, i tagli alla spesa pubblica, la conseguente riduzione del welfare state, la dismissione dell’apparato produttivo, le leggi di “riforma” del mercato del lavoro, hanno portato a un deterioramento generale delle condizioni di vita e all’aumento delle disuguaglianze sociali.
In secondo luogo perché, se andiamo a dare un’occhiata alla composizione di classe dei detenuti, oltre il 90% sono disoccupati, lavoratori in nero, meridionali, migranti, rifugiati, vale a dire persone per cui le maglie del mercato del lavoro sono sempre più strette, e sono perciò costrette a galleggiare tra il mercato del lavoro legale e quello illegale. È il caso dei migranti che, quando non lavorano in nero tra edilizia e agricoltura, dove spesso sono ricattabili per il loro status giuridico di “clandestini” e vengono impiegati in nero, entrano nel mercato illegale, dove svolgono attività predatorie di strada o spaccio di sostanze. In terzo luogo, perché, ad andare a vedere le statistiche dei reati commessi, vediamo che il 75% dei detenuti, sia quelli condannati a sentenze definitive, sia coloro che si trovano in attesa di giudizio, hanno commesso reati connessi alla violazione della proprietà privata. Parafrasando Proudhon, siamo passati da “la proprietà è un furto” al furto della proprietà.
Se è vero che, da un lato, un’altra buona parte dei reati sono connessi alla violazione della legge sugli stupefacenti, dall’altro lato bisognerebbe ragionare su due aspetti. Il primo è che il consumo di sostanze è un comportamento diffuso nella società, e la negazione, rimozione o repressione della questione provoca sia un aumento esponenziale delle pratiche repressive, sia una proliferazione delle organizzazioni criminali. In secondo luogo, anche nel caso del consumo di sostanze, la differenza di classe emerge in tutta la sua gravità, perché è quasi impossibile trovare in carcere il manager o la vip che sniffano cocaina nei privé delle discoteche e nelle ville di campagna. Viceversa, troveremo più facilmente in carcere il migrante, l’operaio e il disoccupato che nel fine settimana indulgono in qualche trasgressione o che cercano nelle sostanze la strada per colmare i vuoti economici, sociali ed esistenziali che li affliggono.
Non a caso, un terzo dei detenuti risulta tossicodipendente abituale, mentre un quarto è affetto da una grave patologia. Anche in questo caso vediamo come i frutti del neoliberismo si colgono in carcere, dal momento che persone affetti da gravi problemi fisici e psicologici sono reclusi perché in questi anni, come dice il sociologo francese Loïc Wacquant, la spesa pubblica è stata riconvertita dallo Stato sociale allo Stato penale. Il cosiddetto reparto blu del carcere di Trapani, dove sono avvenuti i pestaggi, ospitava molti detenuti affetti da squilibri psichici.
Il carcere si connota come una vera e propria discarica sociale, dove la società contemporanea, seguendo l’imprinting postfordista del capitalismo neoliberista, delocalizza i problemi che non vuole risolvere, ma che preferisce rimuovere. Non casualmente, in vasti settori dell’opinione pubblica, prevale l’idea che il carcere, lungi dall’essere un luogo di rieducazione così come prescritto dall’articolo 27 della Costituzione antifascista, deve semmai essere un posto dove i detenuti debbano rimanere più a lungo possibile, buttando via la chiave della cella.
A partire da questo schema interpretativo, i pestaggi di Trapani non rappresentano affatto un’anomalia, in quanto soddisfano una domanda securitaria di legge e ordine alimentata dal basso, dove la percezione di insicurezza si combina con la rappresentazione della realtà filtrata dai media. Parafrasando Althusser, l’ideologia punitivista, si caratterizza per essere il prodotto di un discorso circolare, dove le pulsioni, le incertezze, le inquietudini che circolano nella società, vengono filtrate ed elaborate dalla sfera politica e dall’industria mediatica per essere restituite sotto forma di paura che alimenta la domanda di sicurezza e accoglie di buon grado le pratiche autoritarie. Talk shows, fiction, programmi di intrattenimento, giornali, raccontano di una società irta di pericoli, popolata di serial killer, pedofili, stupratori, terroristi, da rinchiudere a lungo o definitivamente in carcere. Rimuovendo che i reati sessuali, nella gran parte dei casi, avvengono tra le mura domestiche. Che i reati gravi rappresentano solo il 10% di quelli trattati e sanzionati dal sistema giudiziario penale. Che la schiacciante maggioranza della questione penale, è, innanzitutto, questione sociale.
La conseguenza più immediata dell’egemonia punitivista è quella del carcere come istituzione opaca, impermeabile ai controlli democratici, dove il personale penitenziario, a cominciare dagli agenti di custodia, può agire in modo discrezionale nei confronti dei detenuti, sentendosi legittimato dall’esterno a indulgere nelle pratiche abusive più estreme. In altre parole, se quelli che stanno in carcere meritano di starci, se il pubblico chiede di rimuoverli dal tessuto sociale, se i politici promuovono e implementano misure severe nei confronti dei detenuti, gli agenti di custodia si sentiranno investiti di un mandato ampio, legittimati a comportarsi in maniera abusiva. L’indifferenza del pubblico, il sostegno dei politici, veicolerà presso il personale penitenziario la convinzione che possono operare all’insegna della massima impunità.
Se alcuni magistrati di sorveglianza, come avvenuto a Firenze la scorsa estate, arrivano a scrivere in una sentenza che il carcere è un luogo di punizione, quindi non ci si può lamentare dell’acqua calda che scarseggia. Se il vice guardasigilli può vantarsi in pubblico che le nuove vetture blindate destinate al trasporto dei detenuti sono pensate per farli soffrire. Infine, se la premier afferma che criticare i poliziotti è pericoloso, deposita prima delle elezioni una proposta di legge di modifica dell’articolo 27 della Costituzione in cui si afferma che la pena deve tendere alla sicurezza dei cittadini e non più alla rieducazione del condannato, non c’è da stupirsi di pestaggi, getti di urina, offese, violenza psicologica e deprivazioni materiali e morali.
Tanto più che è in discussione una proposta di modifica della legge sul reato di tortura, faticosamente introdotta nel 2017, che allevia (o, sarebbe meglio dire, annulla) le responsabilità penali delle forze di polizia. Il Ddl 1660, varato di recente dal governo, provvede a rincarare la dose, introducendo il reato di rivolta penitenziaria, sulla scia di quanto affermato dalla Cassazione sul caso Cospito, in una sentenza che definisce il corpo come un’arma, vanificando in un colpo solo le figure di Gandhi e Martin Luther King, e tutte le lotte non-violente come gli scioperi in primis.
Tuttavia, per comprendere meglio le dinamiche relative al carcere di Trapani, è necessario affiancare almeno altri tre elementi all’aspetto securitario. Il primo è quello che potremmo chiamare quello della doppia marginalità. I poliziotti penitenziari provengono da famiglie operaie e contadine, spesso di origine meridionale, e il loro lavoro, pur essendo un impiego statale a tempo indeterminato, merce di questi tempi sempre più rara, è il meno prestigioso e il meno qualificato all’interno dell’amministrazione pubblica. Alla scarsa gratificazione, bisogna aggiungere un altro aspetto. I tagli alla spesa pubblica incidono anche sulle carceri, così che il cosiddetto personale trattamentale, ovvero insegnanti, psicologi, psichiatri, criminologi, operatori sanitari, sia sempre più scarso e sovraccaricato. Ne consegue che gli agenti di polizia penitenziaria si trovano a svolgere anche compiti a cui non sono preposti, tantomeno formati, in una situazione di crescente sovraffollamento, all’interno di strutture fatiscenti. Non è casuale il fatto che i suicidi tra le forze di polizia penitenziaria siano frequenti quasi quanto quelli dei detenuti.
Dal degrado della condizione professionale scaturisce il secondo elemento, legato all’asimmetria delle relazioni di potere. Gli agenti di polizia penitenziaria, pur occupando il livello più basso delle gerarchie formali, godono tuttavia di un’egemonia sostanziale all’interno delle carceri. I direttori ruotano ogni tre anni, il personale trattamentale, appena può, opta per sistemazioni all’esterno. Quelli destinati al carcere, come gli educatori, sono comunque subalterni a chi, come gli agenti, vive la quotidianità coi detenuti, filtrano i rapporti con le altre figure, dispongono di potere sanzionatorio, dispongono di equipaggiamenti contundenti e contenitivi, come manette e manganelli.
Si tratta di risorse conoscitive e materiali molto importanti, perché, oltre a permettere ai poliziotti penitenziari di ricavarsi un ruolo essenziale nel filtrare la gestione della quotidianità penitenziaria, li mette in condizione di agire in modo intimidatorio nei confronti dei detenuti. Una posizione di potere che, ribaltando le gerarchie di partenza, compensa la frustrazione derivata dallo status professionale, e mette gli agenti nella condizione di sfogare il loro disagio sui detenuti utilizzando la violenza fisica e attuando le pratiche vessatorie come quelle viste a Trapani e in altre carceri. In altre parole, si tratta di un vero e proprio meccanismo di sfogo delle proprie frustrazioni, combinato con una riaffermazione delle gerarchie sociali. Gli agenti di custodia, abusando dei detenuti, ribadiscono, innanzitutto a loro stessi, che, pur stando sulla soglia, sono comunque all’interno del perimetro dell’inclusione sociale, mettendo in atto una straziante e patetica guerra tra poveri. Nel 2000, i pestaggi avvenuti nel carcere di Sassari, rivelarono che gli agenti e i detenuti provenivano in gran parte dallo stesso quartiere, ma avevano compiuto scelte e intrapreso percorsi diversi. La tragica vicenda assunse allora una connotazione a tinte cinematografiche, come fosse una guerra tra bande di quartiere trasferita in prigione.
Infine, un altro elemento da tenere in considerazione, è quello della logica del gruppo. Silvio Pellico, ne Le mie prigioni, parlava dell’umanità del carceriere Schiller. I 57 avvisi di garanzia, gli 11 arresti, le 14 sospensioni dal servizio, ci raccontano una storia diversa e amara. Le violenze, gli abusi, lungi dall’essere il frutto di un’attitudine portata avanti da “poche mele marce”, come recita il senso comune, si presentano piuttosto come il prodotto di una vera e propria devianza organizzativa. Come è possibile che tali comportamenti vengano messi in atto in modo collettivo? Lo psicologo Philip Zimbardo parlava di “effetto Lucifero”. Ovvero, i membri di un’organizzazione, in nome di una giustificazione condivisa con altri, sono in grado di commettere le peggiori atrocità, in un contesto in cui i freni inibitori e la coscienza individuale vengono sopraffatte dall’appartenenza al gruppo. In cambio dei loro comportamenti abusivi, spesso atroci, i membri del gruppo coinvolto ricevono protezione e identità, oltre a condividere l’esercizio di un potere. Il padre più tenero, l’amante della natura più mite, all’interno di un gruppo dotato di un minimo di potere e di principi giustificatori, possono trasformarsi in feroci aguzzini.
La combinazione di securitarismo, rapporti di potere, spirito di gruppo, ci consente di capire e di spiegare quanto è avvenuto a Trapani. Una storia che riguarda la società contemporanea, la divisione in classi, la lotta tra esclusi e inclusi. In cui la risorsa penale viene utilizzata per produrre e riprodurre le condizioni oggettive che consentono al potere repressivo, come articolazione del capitalismo contemporaneo, di dispiegare la sua cappa oppressiva sulle classi subalterne. Alle quali viene somministrata la droga del giustizialismo per distoglierle dalla comprensione approfondita dei processi politici e sociali in atto. È possibile disarticolare questa strategia oppressiva e repressiva, a partire dal ritrovamento della consapevolezza che giustizialismo e giustizia sociale non sono sinonimi ma, anzi, si trovano in stridente contrasto. Perché una società di liberi e di uguali, è da una società senza carceri. Da qui bisogna ripartire. Necessariamente.