Io e Simona, e il nostro incontro con Papa Fancesco

22 Apr 2025 Claudio Bottan

“Dove andate?” ci hanno chiesto le guardie svizzere all’ingresso di Casa Santa Marta, la residenza di Bergoglio. “Abbiamo appuntamento con il Papa” ho risposto titubante con un filo di voce. Dopo un rapido controllo ai terminali ci hanno accompagnato e fatti accomodare in un salottino al primo piano. “Sua Santità vi raggiungerà tra poco”. Solo in quel momento abbiamo realizzato che era vero, che non eravamo vittime dello scherzo telefonico di qualche buontempone.

Qualche giorno prima avevo preso carta e penna per scrivere al Pontefice. Una di quelle lettere senza alcuna aspettativa in una risposta, un messaggio nella bottiglia in cui raccontavo di aver avuto il privilegio di incontrarlo in occasione del Giubileo straordinario del 2016, un incontro molto ravvicinato di cui allegavo anche le foto. Dopo sei anni di detenzione durante i quali ero stato trasferito in diversi istituti, mi ritrovavo in carcere a Busto Arsizio, lo stesso istituto dal quale era iniziato il mio lungo tour delle prigioni. Don Silvano, il cappellano a cui mi legava ormai un rapporto fraterno di amicizia, ci aveva preannunciato che alcuni di noi sarebbero stati scortati a Roma per assistere alla celebrazione del Giubileo dei carcerati. Avremmo potuto farlo da una posizione molto vicina al Pontefice, ci aveva promesso “il don”. Nessuno tra gli undici “prescelti”, tuttavia, si sarebbe mai aspettato di trovarsi faccia a faccia con Francesco e, men che meno, accanto a lui sull'altare come chierichetto. “Era per non mettervi ansia”, ci ha detto poi quell’umile prete di galera, che intanto se ne stava con gli occhi lucidi in mezzo ai fedeli con lo sguardo fisso verso i suoi "ragazzi".

A differenza nostra non ha avuto l’opportunità di incontrare il Papa, ma questa per lui non era una priorità: nella sua infinita generosità don Silvano ci aveva aperto una porta sulla speranza facendoci vivere un’esperienza che ci avrebbe segnato per sempre. «Cari detenuti, è il giorno del vostro Giubileo! Che oggi, dinanzi al Signore, la vostra speranza sia accesa. Il Giubileo, per la sua stessa natura, porta con sé l’annuncio della liberazione (cfr Lv 25,39-46). Non dipende da me poterla concedere, ma suscitare in ognuno di voi il desiderio della vera libertà è un compito a cui la Chiesa non può rinunciare. A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Ogni volta che entro in un carcere mi domando: “Perché loro e non io?”». La basilica di San Pietro era gremita: oltre mille tra detenuti, volontari, cappellani e operatori penitenziari provenienti da tutta Italia. Le parole pronunciate da Papa Francesco durante l’omelia hanno spalancato i cuori ma hanno anche contribuito ad accrescere la commozione dei chierichetti-galeotti: ricordo ancora di essere inciampato in mondovisione mentre mi avvicinavo al Pontefice per versare l’acqua, ma ho trovato una mano pronta a sorreggermi e un sorriso tranquillizzante. Intanto, guardando i volti dei detenuti tra i banchi mi chiedevo: “Perché io e non loro?”.

Durante la vestizione, prima della celebrazione, abbiamo incontrato Francesco. Avevo tra le mani alcune copie del "giornalino dal carcere" e non ho avuto dubbi: tra le sue mani doveva finire il numero che in copertina rappresentava la speranza: Marco Pannella e il suo dito puntato sui diritti degli ultimi. Un'immagine che ha colpito Francesco, il Papa degli ultimi.

Nella lettera indirizzata al Papa, scritta durante la pandemia, mi spingevo oltre e osavo chiedergli di poterlo incontrare di nuovo insieme a Simona, la donna che mi aveva cambiato la vita. Poi è arrivata quella telefonata inattesa: “Sono padre Gonzalo. Sua Santità vorrebbe incontravi, siete liberi sabato?”.

Si è aperta la porta, è entrato in quel salottino di Santa Marta dove ci avevano fatti accomodare. Da solo, senza tanti convenevoli, sorridente, e con quell’andatura ciondolante a causa dell’artrosi che lo rendeva ancora più umano, fratello e vicino.

 “Come state?”. Papa Francesco mi ha abbracciato, poi ha allungato la mano verso quella di Simona e ha intuito immediatamente che quelle mani non si sarebbero mosse a causa della sclerosi multipla. Si è seduto di fronte a noi e ha ascoltato. Mezz’ora di lacrime e sorrisi; racconti di vite che si intrecciano e arrancano guardando oltre le difficoltà del quotidiano.

“Io non credo – gli ha detto Simona, con la spontaneità che la contraddistingue, prima di fargli vedere un video del suo viaggio in India –. Però molte persone nel mondo mi hanno detto che avrebbero pregato per me”.

“Capisco. Ma promettimi che tu pregherai per me” le ha risposto Bergoglio sorridendo. Ancora non sapeva, il Papa, che Simona avrebbe osato oltre: “Santità, ce lo possiamo fare un selfie?”. “Certamente!”.

“Solo che io non muovo le mani e dovrebbe farlo lei”.

“Volentieri, ma io non ho dimestichezza con questi aggeggi…” ha risposto il Pontefice. “Le spiego io: guardi qui…” Click. Ci rimane l’immagine di quell’uomo vestito di bianco che attende sul pianerottolo e ci saluta con la mano mentre raggiungiamo l’uscita di casa sua.

Oggi chi ha avuto il privilegio di incrociare sul proprio cammino lo sguardo di quell’uomo “venuto dalla fine del mondo” non può che aggrapparsi alla speranza per vincere la malinconia, il senso di solitudine e il vuoto che lascia la scomparsa di Papa Francesco. Quella speranza che non deve mancare mai, di cui c’è tanto bisogno. Lo ricordava il Pontefice nella bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit cui è seguita la significativa apertura della Porta Santa in carcere a Rebibbia. La speranza, però, va concretizzata con l’agire, e senza ipocrisia, come ha affermato il presidente Mattarella: “La morte di Papa Francesco suscita dolore e commozione tra gli italiani e in tutto il mondo. Il suo insegnamento ha richiamato al messaggio evangelico, alla solidarietà tra gli uomini, al dovere di vicinanza ai più deboli, alla cooperazione internazionale, alla pace nell'umanità. riconoscenza nei suoi confronti va tradotta con la responsabilità di adoperarsi, come lui ha costantemente fatto, per questi obiettivi”.