
Israele si crede Sparta Storia di un genocidio
05 Oct 2025 Eric Salerno Maryam Abu Daqa, fotografa uccisa il 5 agosto 2025Eric Salerno è giornalista, inviato speciale, scrittore, esperto di questioni africane e mediorientali
I più anziani di noi ricordano le parole di un discorso pronunciato da Moshe Dayan nel lontano 1956, a Nahal Oz una delle comunità israeliane vittima della ferocia di Hamas il 7 ottobre 2023. Il mitico generale eroe di guerra - quello con la benda su un occhio - e poi ministro della Difesa, parlava ai funerali di un membro della comunità ebraica israeliana ucciso da un arabo. “Evitiamo, oggi, di dare la colpa agli assassini. Quale lamentela possiamo permetterci per il loro odio nei nostri confronti? Da otto anni vivono nei campi rifugiati di Gaza, e davanti ai loro occhi stiamo trasformando in nostra la terra e i villaggi in cui loro e i loro genitori vivevano”.
Anni dopo, accompagnando il ministro degli esteri italiano Giulio Andreotti in Israele, ascoltai l’uomo di governo, fervente cattolico, fare un’affermazione più volte ripetuta anche a Roma in parlamento. “Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista”.
Pochi giorni fa, una commissione delle Nazioni Unite ha detto che Israele sta commettendo un genocidio a Gaza. E il premier israeliano Benjamin Netanyahu, come unica risposta, ha parlato della antica Sparta e chiesto ai giudici che stanno esaminando i suoi casi di corruzione di sospendere il processo perché è troppo impegnato a impedire la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele. “Bibi” come si faceva chiamare, da sempre un convinto assertore della vecchia piattaforma del Likud - “dal mare al giordano” - è prigioniero dei suoi problemi giudiziari e della destra messianica della sua coalizione. Uno dei suoi ministri, Ben Gvir, ha le idee chiare. “Il mio piano, una volta conclusa la vittoria di Gaza è costruire lì un quartiere di lusso per i poliziotti, con vista sul mare. Sarà uno dei posti più belli del Medio Oriente”. E poi il ministro delle finanze Bezalel Smotrich ha aggiunto: “La Striscia di Gaza sta diventando una bonanza immobiliare”, e il piano è “sulla scrivania del presidente Trump”. Secondo Smotrich, sono iniziati i negoziati con gli Stati Uniti. “Abbiamo pagato un sacco di soldi per la guerra, quindi dobbiamo decidere come dividere le percentuali della terra a Gaza. La fase di demolizione è sempre la prima fase del rinnovamento urbano. L’abbiamo fatto, ora dobbiamo iniziare a costruire”.
I due, insieme con Netanyahu portano avanti progetti chiari per annettere la Cisgiordania occupata. E il popolo palestinese di Gaza? Parole per far capire che sta cercando di esportarlo se non in qualche accogliente paese arabo limitrofo, in qualche stato dell’Africa o in Asia. Le immagini delle code interminabili di palestinesi - donne, bambini, uomini di tutte le età che vengono spinte dai feroci bombardamenti verso zone che nell’attesa di una “soluzione finale” dovrebbero trasformarsi in immensi campi di concentramento, sono davanti agli occhi di tutti. Il mondo è arrabbiato, imbarazzato: persino i tradizionali amici di Israele criticano. Ma per ora le iniziative per fermare quello che è stato definito genocidio anche dalle Nazioni Unite (altri parlano di pulizia etnica) sembrano colme di retorica.
E domani? È una domanda che mi fanno in tanti. Ho trascorso quasi quaranta anni in giro per il Medio Oriente come giornalista. Ho visto e sentito il contrario di tutto. La parola d’ordine di quasi tutti i leader israeliani - da sinistra a destra - era “ambiguità costruttiva”. Fu Shimon Peres, esponente laburista a convincere il suo collega di partito Itzhak Rabin ad autorizzare il primo insediamento ebraico a ridosso di Hebron. “Quando faremo la pace con gli arabi - sosteneva - servirà come merce di scambio”.
Oggi molti degli insediamenti o colonie sono vaste città abitate da centinaia di migliaia di ebrei israeliani. E il governo Netanyahu, sostenuto, in questo anche dal presidente americano Trump, parla di annettere il territorio di oltre tre milioni di palestinesi.
Per sei decenni, da quando ha conquistato Gerusalemme Est e la “Cisgiordania”, sconfiggendo gli eserciti arabi, Israele ha deliberatamente mantenuto una politica di ambiguità riguardo al suo possesso di questo territorio. Da un lato, i governi israeliani vi costruirono gli enormi insediamenti. D’altra parte, Israele ha continuato a insistere sul fatto che stava solo trattenendo quella terra per motivi di sicurezza temporanei e che, certo, accetterà di restituire il territorio occupato come parte di un accordo di pace con i palestinesi. Finché non c'è un’annessione formale, Israele può legalmente mantenere in piedi due sistemi di governo uno per i suoi cittadini e un altro per i palestinesi dei territori occupati che vivono sotto il suo controllo. E il mondo, compresi i paesi arabi, sia quelli come l’Egitto che fu il primo a firmare un accordo di pace, sia gli stati ricchi di idrocarburi come il Qatar, gli Emirati e l’Arabia saudita, possono andare avanti mantenendo i loro rapporti con Israele, paese di avanzata tecnologia e con una grande industria bellica. Comprate le nostri armi e i nostri missili “sono tutti testati sul campo”, recitano alcune pubblicità di Tel Aviv senza parlare dei quasi settantamila morti di Gaza. A questo proposito, torna alla memoria un famoso discorso del presidente americano Ike Eisenhower, l’uomo che aveva comandato le forze alleate che sconfissero i nazisti in Europa. Stava lasciando la Casa Bianca dopo otto anni di mandato e lanciò un avvertimento ancora oggi valido per tutti. L’industria della difesa statunitense era in costante e pericolosa espansione, affermò, anche perché si era legata all’industria privata in un modo del tutto senza precedenti per gli Stati Uniti e il mondo. Questo complesso militare-industriale, come lo definì, avrebbe distorto ogni istituzione politica americana e minacciato la democrazia stessa.
Giorni fa Netanyahu, generalmente attento nel suo uso retorico della storia, ha ammesso che Israele sta affrontando un crescente isolamento a livello internazionale - “anche colpa dei troppi musulmani in Europa” - e ha detto che potrebbe essere necessario trasformare il paese in un’economia autosufficiente con “caratteristiche autarchiche”, una sorta di “super-Sparta” con una economia basata, appunto, sul commercio di strumenti di morte sempre più sofisticati. Forse, prima di parlare, non aveva consultato la storia: la mitica città-nazione nota per la sua forza militare e dominio regionale ebbe una vita forte, ma relativamente breve.
Israele sta compiendo un suicidio? E’ la domanda che si fanno molti ebrei della diaspora e anche una parte della popolazione ebraica di Israele, concentrata oggi sulla sorte degli ostaggi di Hamas - una ventina - e indifferente di fronte a quello che stanno facendo a Gaza e in Cisgiordania i militari di Tel Aviv con la complicità diretta o indiretta degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei. Un quadro desolante che nasconde un’idea, quasi un progetto.
Da sempre i leader israeliani sostengono che uno stato palestinese esiste già e puntano il dito sulla carta della Giordania. Oggi il settanta per cento dei cittadini-sudditi del regno hascemita sono palestinesi. L’attuale monarca, Abd Allah al Thani al Hussayn, ha sposato Rania al Yasin. La regina è una palestinese di una buona famiglia di Tulkarem, nella Cisgiordania occupata: i loro quattro figli sono per metà palestinesi. Se fosse per Netanyahu e i suoi seguaci, Israele tornerebbe ai progetti iniziali del Likud: abbattere la monarchia e spingere i palestinesi della Cisgiordania oltre il fiume. E trasferire in Giordania, che potrebbe scegliere di chiamarsi Palestina, anche quello che resta della popolazione di Gaza.
Nella foto Rafah sotto i colpi dell'esercito israeliano. Fotografia di Maryam Abu Daqa, giornalista di Independent Arabic e Associated Press, uccisa con altri 5 giornalisti nell’ospedale Nasser di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza il 25 agosto
Questo articolo è pubblicato sulla rivista di ottobre di Voci di dentro