La suora ribelle: così muore un uomo

05 May 2024 Claudio Bottan

«Lo stato del Texas ha ucciso Ivan Cantu ieri sera, 29 febbraio. Nonostante i crescenti dubbi sulla sua colpevolezza, Ivan è stato giustiziato con un'iniezione letale, in una piccola stanza nota come camera della morte, con le sue pareti verde acqua e la barella con le cinghie. Ero lì con lui, in piedi vicino al suo viso, tenendogli la mano e pregando all'orecchio finché le sostanze chimiche non lo hanno ucciso». È il racconto di suor Helen Prejean il giorno dopo aver assistito all’ennesima esecuzione di una condanna a morte nei civilissimi States. I prigionieri per i quali è programmata l'esecuzione vengono portati dal braccio della morte alla Walls Unit nel primo pomeriggio. A differenza di altri Stati, il Texas non consente ai detenuti di consumare un pasto speciale (la pratica è stata interrotta nel 2011), “a causa dell'abuso di questo privilegio da parte di carcerati nel passato e della logica secondo cui essi non hanno offerto un pasto alle loro vittime e quindi non dovrebbero ricevere un riconoscimento speciale”, come si legge nel sito istituzionale della prigione.

«La grazia di Dio era con lui e con me, prosegue la suora. Era una delle persone più piene di fede e consapevoli che abbia mai incontrato. La sua forza mi ha aiutato. Le sue ultime parole sono state rivolte con calma e chiarezza alle famiglie delle vittime che lo guardavano morire dalle stanze dei testimoni. "Non ho ucciso James Mosqueda e Amy Kitchen. Se avessi saputo chi li ha uccisi vi avrei dato le informazioni in ogni modo possibile. Ma non li ho uccisi io, e se siete qui sperando di trovare ‘la chiusura del cerchio’ e la pace, temo che rimarrete delusi". Ivan ha ringraziato la madre, l'avvocato e gli amici, che lo hanno sostenuto nei suoi 23 anni di reclusione. Mentre pregavo con lui, gli ho promesso che avrei continuato a raccontare la sua storia affinché, attraverso la sua passione e la sua morte, i cuori e le menti delle persone siano risvegliati dalla necessità di porre fine alla pena di morte. Il veleno ha agito velocemente. Qualche respiro profondo poi ha aperto la bocca e ha rinunciato al suo spirito. Ho pregato: "Nelle tue mani, o Signore, affido il mio spirito", proprio come Gesù pregava dalla croce. Quando ho capito che Ivan non c'era più, ho fatto un passo indietro dalla barella per aspettare che il medico della prigione dichiarasse l'ora del decesso. Sapevo che la sofferenza e la grande lotta di Ivan per far conoscere la verità ai tribunali e la gente era finita. Forse parte della forza che sento dentro di me ora, dopo la sua morte, è sapere di aver fatto tutto quello che potevo per cercare di salvargli la vita».

Mentre i testimoni guardavano attraverso una finestra per vedere Cantu esalare l'ultimo respiro, il 50enne ha sostenuto la sua innocenza rivolgendosi alle famiglie delle vittime. Il procuratore distrettuale della contea di Collin, Greg Willis, ha liquidato il caso con un tweet: “Cantu ha finalmente incontrato giustizia. Non ci sono stati problemi con l'iniezione letale, che è durata circa 21 minuti”. Ivan Cantu aveva chiesto di non avere alcun testimone, ha detto il portavoce del Texas Department of Criminal Justice. Oltre a tre giornalisti, all'esecuzione hanno assistito il fratello di Kitchen, sua cognata e un amico di famiglia. “Cantu aveva chiesto di non avere testimoni”, ha aggiunto il portavoce, sebbene fosse accompagnato dal suo consigliere spirituale, l'attivista contro la pena di morte, sister Helen Prejean.

Michael Graczyk, uno dei tre testimoni per i media che ha seguito l'esecuzione per l'Associated Press, ha scritto che Cantu appariva "piuttosto di buon umore" prima dell'esecuzione. Prejean ha preso la mano di Cantu e gli ha sussurrato all'orecchio per circa due minuti prima di fare la sua dichiarazione finale. Cantu “non sembrava amareggiato, non sembrava arrabbiato” durante la sua ultima dichiarazione, ha detto Graczyk. "Ha semplicemente insistito di essere innocente."

Sono rimasto in contatto con “la suora ribelle” dopo averla conosciuta nel 2012 quando ero detenuto al carcere di Vicenza; uno di quegli incontri che avvengono per caso, ma forse non a caso, e ha segnato per sempre il mio percorso. Ogni volta mi sforzo di capire dove trovi la forza, ad 85 anni, per continuare incessantemente le sue battaglie per l’abolizione della pena di morte, ma forse c’è poco da capire. Allora ogni scusa era buona per uscire dalla cella in cui si rimaneva chiusi per ventidue ore al giorno: visita medica, messa, colloquio con la psicologa o un libro da prendere in biblioteca nei giorni assegnati; persino quando si è presentata l’occasione per partecipare a un incontro con una suora, non ci ho pensato due volte e mi sono messo in lista. Di cosa di trattasse mi importava poco pur di evadere per due ore. In chiesa eravamo in tutto una trentina di detenuti, pochissimi rispetto all’eccezionalità di ciò a cui avremmo assistito di lì a poco. Di fronte a noi c’era Sister Helen Prejean, forse il volto più famoso al mondo nella battaglia contro “l’omicidio legalizzato”, la pena di morte, anche se è nota ai più per l’interpretazione che ne fecero Susan Sarandon e Sean Penn in Dead Man Walking. Quel film degli anni Novanta, che fece vincere l’Oscar all’attrice, portava sul grande schermo il libro con cui la suora cattolica denunciava l’ingiustizia della pena capitale e di come, quando lo Stato uccide in nome della comunità, abbassa tutta la comunità al livello di chi uccide.

Abbiamo ascoltato Sister Helen raccontare del suo primo braccio della morte, nella prigione “Angola” in Louisiana. «L’ingresso di Patrick nel parlatoio era preannunciato dal rumore delle catene che strisciavano per terra. Lo guardai attraverso il vetro: disprezzavo il suo crimine, ma vidi gli occhi di una persona, non di un mostro». La guardia in servizio le chiese: “Cosa ci fa una suora in un posto come questo?". È rimasta accanto a Sonnier per due anni, fino al giorno in cui lo stato gli ha rasato la testa per gli elettrodi, lo ha legato alla sedia e lo ha giustiziato. Non ebbe mai il permesso di toccarlo, poteva soltanto appoggiare le mani sullo schermo che li separava. Poi l’ultima Messa, celebrata poco prima dell’esecuzione sulla sedia elettrica, il 4 aprile1984. Suor Helen è rimasta con lui, e poi con molti altri condannati, nelle ultime ore. Quella prima volta, tornando a casa, dovette fermarsi prima di aver fatto molta strada: doveva vomitare a causa del rituale disumanizzante a cui aveva assistito. Da allora è andata avanti a testa bassa. Il suo impegno sta contribuendo a far cambiare l’opinione pubblica degli americani, un lavoro orientato anche alla costruzione di alleanze con i parenti delle vittime. Devastante il percorso delle famiglie delle vittime, che dopo l’esecuzione leggono pubblicamente un messaggio scritto dagli uffici del governo con cui ringraziano le autorità federali perché riconoscono che giustizia è stata fatta. «Gioire della morte di un essere umano, per quanto colpevole, è un secondo trauma per coloro che hanno perso una persona amata», ci raccontava allora la religiosa. È cominciato così un impegno costante per l'abolizione della pena di morte. La notorietà del libro e del film diede impulso alla campagna mondiale di Prejean contro la pena capitale. Nel frattempo, riconoscendo i bisogni anche delle famiglie delle vittime di crimini violenti, Prejean ha creato Survive, un gruppo di sostegno con il quale continua a lavorare.

In questi giorni al Tribeca Film Festival viene presentato “Rebel Nun”, il docufilm del regista Dominic Sivyer che ripercorre sessant'anni di vita e di lavoro di suor Helen, la cui storia è stata raccontata per la prima volta nel film Dead Man Walking del 1995, che continua ad essere una forza ispiratrice per la giustizia. Per comprendere a fondo la battaglia di chi negli USA vuole abolire la pena capitale è necessario sapere in quali condizioni i detenuti sono costretti a vivere per decenni nel braccio della morte. Ci sono Stati in cui ai prigionieri è permesso di fare esercizio fisico, altri come il Texas, al primo posto nel Paese per numero di esecuzioni, dove le condizioni sono estremamente dure; nonostante l’uso prolungato dell’isolamento violi il diritto internazionale, i condannati sono privati dell’ora d’aria e di ogni tipo di contatto con gli altri. Attualmente sono “solo” 2.300 le persone in attesa nei bracci della morte statali, una quarantina in quelli federali. La sedia elettrica per il momento è finita in soffitta, il soffocamento tramite azoto è la nuova frontiera della morte, e la suora ribelle continua a raccontare “gli uomini morti che camminano”: «Chiedo a tutti di unirsi a me nell'urgente lavoro per porre fine a questa terribile tortura e uccisione di esseri umani che la nostra Corte Suprema legalizza e benedice ritenendo sia l’opera di Gesù che pratichiamo, dice suor Helen: "Avete sentito dire, occhio per occhio"... Ma io vi dico... "E la preziosa opera dei diritti umani?”. Oggi trascorro la giornata con la madre di Ivan, Sylvia, lei stessa una donna valorosa e piena di fede. Quando la scorsa sera le è giunta voce della morte di suo figlio, le persone che erano con lei hanno potuto sentire il suo forte lamento di dolore in tutta la casa. Ora, insieme alle famiglie delle vittime, un'altra madre piange il suo bambino morto. Sto bene, anche se tutto sembra ancora piuttosto irreale. Il Texas ha davvero ucciso Ivan in quella stanzetta la scorsa notte? Ed ero lì così vicino a lui, tenendogli la mano? Domani tornerò a New Orleans. Sarò felice di lasciare il Texas, il più grande stato di morte della nazione. Pregate per me e sostenetemi».