No alla logica del Noi e loro: il carcere è una comunità dove ci deve essere ascolto

06 Oct 2024 Carmelo Cantone*

Riportiamo un commento di Carmelo Cantone, giù Vice Capo del Dap, pubblicato sull'ultimo numero di Voci di dentro

Il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove nelle scorse settimane, in occasione di una visita alla casa circondariale di Taranto ha voluto partecipare mediaticamente che “non si andava ad inchinare alla mecca dei detenuti”, sottolineando così che quando si reca in carcere, ci va esclusivamente per incontrare il personale di polizia penitenziaria.
Non credo che sia particolarmente utile né importante discutere di queste affermazioni con il sottosegretario che secondo me, e non solo secondo me, è il primo ad essere consapevole della gravità di quanto dice, ed in questa sua consapevolezza c'è la volontà ben precisa di parlare alla pancia della polizia penitenziaria. Non è il primo politico che ha questo modo di approcciare il mondo penitenziario nella storia moderna del carcere in Italia. I risultati nefasti di queste scelte si sono realizzati in passato, si stanno concretizzando già oggi e non c’è da stare allegri per il prossimo futuro. 
Ma credo che sia importante per onestà intellettuale fare alcune riflessioni insieme a chi legge questa rivista e queste righe, perché la logica sposata dal sottosegretario Delmastro Delle Vedove è quella del “noi e loro”.” Noi”, che ci battiamo per la sicurezza, per la tranquillità della società civile e “loro” i criminali che soggiornano in carcere e che non meritano neanche una breve visita dai rappresentanti delle istituzioni.
L’uso dei termini “inchinarsi” e “la Mecca” sembra voler affermare che il carcere è (o va bene che sia?) il Regno della criminalità; se il politico va a vedere le condizioni in cui si vive (non dico addirittura a parlare con le persone) vuol dire che sta omaggiando gli autori del male.
Ci si potrebbe chiedere quante persone nel nostro paese siano già in sintonia con questo modo di pensare, sicuramente molte, soprattutto nelle città del paese dove la percezione della sicurezza in questi anni è sempre più negativa, e pertanto è rassicurante il pensiero del delinquente parcheggiato in carcere (prima o poi uscirà, il parcheggio finirà: che sia più lontano possibile quel momento). Ma è doveroso, per quello che abbiamo visto e vissuto in quasi quarant’anni testimoniare e ragionare, rivolgendosi idealmente all'attenzione di qualsiasi tipo di cittadino che comunque crede al valore democratico del nostro ordinamento, anche se può avere una visione stereotipata addirittura grossolana del mondo penitenziario.
Personalmente non amo rendere complessi i pensieri e le questioni di cui parlo, ma in queste vicende mi rendo conto che è bene dare un’idea della complessità dei fenomeni di cui si parla, senza semplificazioni strumentali e fuorvianti. Allora quando si affronta il tema carcere davanti alla affermazione del “noi e loro” dobbiamo affermare, prima di tutto, che il “loro” non esiste.
Chi lavora in carcere sa bene, magari attraverso l'esperienza degli anni, che negli istituti penitenziari non vi è semplicemente una massa di persone devianti ma migliaia di individualità. Bisogna realizzare che lo status giuridico di detenuto condiziona senz’altro la persona ma non avvolge ed esaurisce l’individuo, per quanto non siano da sottovalutare gli effetti della “prisonizzazione”. 
Conosco gli equivoci in cui si può incorrere. Nei miei primi mesi di lavoro in carcere mi accadde di rimanere sorpreso quando qualche volta incontravo per strada persone che avevo conosciuto e con cui avevo parlato quando erano detenuti, anche pochi giorni o pochi mesi prima. Ricordo che mi stupivo nel vedere persone che nella postura, nell’atteggiamento, anche nell'abbigliamento erano altro da quello che avevo visto in carcere. Ci mancava poco che pensassi:” ma allora sono come noi!”
La banalità di questo pensiero è figlia del condizionamento che ti crea all’inizio il lavoro e l’osservazione della vita penitenziaria. Una vita di restrizione, dove soprattutto se l’uomo non ha una significativa caratura criminale rischia di implodere: non ha cura di sé, non parla con gli altri o fa finta di comunicare, e altro ancora. La persona detenuta non può essere ricondotta esclusivamente in questo schema, neanche se si tratta di appartenenti alla criminalità organizzata (e come tali molto spesso caratterizzati da una mentalità fortemente strutturata). Qui non vogliamo discutere della distinzione tra buoni e cattivi (ancora noi e loro), della sicura separazione di due mondi: perché i due mondi non esistono. Non si tratta di impegnare una lettura esclusivamente giuridica che non può esaurire il problema, semmai di tenere presenti i valori etici su cui una comunità si può e si deve ritrovare.
Il grande equivoco della separazione tra noi e loro è già testimoniato dal fatto che in carcere vivono anche persone in attesa di giudizio, che magari saranno successivamente scagionate e quindi scarcerate. In questo caso di cosa parliamo? Di miracolati che ritornano ad essere normali?
Il comico Walter Chiari, che aveva conosciuto il carcere nel 1970 per una vicenda di uso di droghe, con coraggio e franchezza una volta ritornato nel mondo dello spettacolo raccontava nella TV di Stato di allora (figurarsi...) del giudizio di “drogato” che la gente ti può affibbiare.
In effetti parlavo di fenomeni complessi perché, anche per chi non ha mai visto un carcere, è facile comprendere la varietà delle persone detenute. È già discutibile la suddivisione in categorie: tossicodipendenti, mafiosi, rapinatori, spacciatori e così via, una suddivisione che anche dal punto di vista sociologico rischia di non dire molto, ma questo arrivare a compartimentare le persone che hanno commesso un certo tipo di reato, piuttosto che un altro, perché stanno in una certa sezione o perché si aggregano in certi gruppi può avere un senso ma molto relativo.
È evidente che per gli operatori penitenziari è necessario osservare questi ed altri aspetti che caratterizzano le persone, perché entrano in gioco tutta una serie di strumenti lavorativi che servono a coniugare la sicurezza nell’istituto penitenziario, più in generale a migliorare la qualità della vita in carcere, ma tutto questo non c’entra nulla con la creazione del diaframma tra noi e loro. Il peso del giudizio di valore è altro; entrerà in gioco nella valutazione dei percorsi dei singoli detenuti.
Quest’ultimo aspetto probabilmente è fra i più connotanti del carcere, perché osservare il comportamento di persone private della libertà personale ha una sua forte specificità rispetto all’osservazione di persone che si muovono nella società libera.
Si vuole affermare che siamo diversi noi e loro? Se il criterio è quello dell’attribuzione della colpa, allora mandiamo in cartoni tutto il tessuto costituzionale in materia penale, per non parlare della giurisprudenza, sia lontana ma soprattutto recente, della Corte costituzionale. 
Vogliamo dire che la diversità sta nella connotazione netta del luogo carcere, con le sue mura, le sue sbarre ed il suo cemento armato? Allora spiegatemi perché su altri luoghi come i tribunali, gli ospedali, le scuole non si sente il bisogno di creare questi diaframmi. Non mi risulta che gli impiegati delle Poste considerano gli utenti come una fauna particolare altro da loro.
In realtà la specificità del carcere dovrebbe stimolare altre considerazioni, che non vanno indirizzate a chi lavora nel carcere a qualsiasi titolo, compreso il volontariato organizzato, ma vanno dirette alla società civile a cui arrivano narrazioni diverse e spesso confuse.
So che è difficile per alcuni da comprendere, ma bisogna parlare del carcere come di una comunità; un luogo dove sono compresenti gruppi di persone con ruoli diversi, con interessi diversi, con pensieri diversi, sia che si parli di chi vive in carcere che di chi ci lavora.
Come si fa in queste condizioni a parlare di comunità, quando questa presuppone un luogo e un tempo di condivisione tra gli appartenenti alla comunità stessa?
Il punto è proprio questo. In quel luogo sono costrette la convivenza e, se possibile, la condivisione tra persone detenute, così come è, in altro modo, costretta la presenza degli operatori penitenziari e non che comunque vivono dentro quel mondo. Ciò che lega e tiene insieme un senso di comunità è la possibile tensione comune verso il miglioramento della qualità della vita nel luogo carcere.
Per lavorare in questa direzione anche da parte di chi viene in visita in un istituto penitenziario bisogna vedere, ascoltare e parlare con tante persone. Il direttore, il poliziotto penitenziario, l’educatore o il medico dell'istituto hanno moltissimo da raccontare, da spiegare e da ripensare su quel che accade in quei luoghi, ma per contribuire a creare il senso di comunità bisogna parlare anche con chi è detenuto: con chi evoca la propria famiglia, con chi non ha nulla, con il tossicodipendente, con chi rivendica, anche in modo implicito, l’appartenenza alla criminalità organizzata, con chi rivendica a modo suo la legittimità di una vita deviante o di margine. È possibile che fare questo faccia perdere credibilità e autorevolezza a chi rappresenta le istituzioni?
A chi viene in visita negli istituti si deve chiedere di guardare negli occhi le persone. Che cosa strana vero? Sarebbe la cosa più normale e invece è diventata in questi tempi un’attitudine difficile e rara; è su questo tratto che sia chi lavora che chi vive in carcere coglie molto spesso la serietà del contributo di chi viene in visita. Quello che è necessario è esattamente l’opposto della logica del “noi e loro”, che si manifesta anche quando si pensa ai “personaggi” e non alle persone, quando si guarda allo straniero detenuto brutto, sporco e cattivo (la “Mecca” vuole probabilmente richiamare questo), quando si compatiscono le condizioni di lavoro soprattutto dei poliziotti penitenziari per poi lasciarli al loro destino e alle loro tragedie.
Gli uomini delle istituzioni, sia politici che tecnici, devono saper coniugare ascolto, rispetto e quindi anche autorevolezza quando entrano in questo tipo di comunità.
*Carmelo Cantone, già Vice Capo del Dap