Non chiamateli suicidi

25 Mar 2024 Redazione

Ventisettesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno, dopo i 69 suicidi avvenuti nel 2023, e gli 86 nel 2022. Molto spesso giovani, tanti sotto i trent’anni. Vittime come il 31enne ecuadoriano che si è impiccato ieri sera in cella al Lorusso e Cutugno di Torino dove era detenuto dall’estate scorsa. Era stato giudicato incapace di intendere e volere: da tempo era in attesa di essere trasferito in una Rems. Ma non ce l’ha fatta a resistere rinchiuso in queste carceri che trasformano i medici in burocrati asserviti alla sicurezza, gli educatori in funzionari che hanno introiettato il linguaggio della penitenziaria, i magistrati di sorveglianza (pochissimi) in contabili con lo sguardo sulle carte e non sulle persone. Suicidi? No. Non chiamateli suicidi.
Qui una riflessione di Saverio Garzia: il testo è scritto in collaborazione con Marian Dimitru.
"Corre l’anno 2024 e molteplici sono le notizie che parlano delle carceri italiane soprattutto sulla questione dei suicidi, che sono in costante aumento. E qui in Abruzzo il pensiero corre a Patrick che si è impiccato a vent’anni al terzo giorno dall’arresto. Ci si chiede perché e la risposta non è per niente facile. E varie sono le risposte:  a partire da un’intolleranza fisica e psicologica alla costrizione, in una situazione assurda in cui non ci si vuole arrendere al fatto di rinunciare alla vita stessa quando non si riescono più a trovare soluzioni e vie d’uscita, per il fatto di essere isolati e abbandonati da tutti e dentro un sistema che oltre a essere sbagliato è gestito da gente che non sa cosa significa trovarsi in tali condizioni.
Io sono un detenuto del carcere di Chieti, e a tal proposito, vorrei rendere pubblica una situazione analoga che molti preferirebbero neanche ricordare e sapere: lo scorso 6 febbraio è entrato in carcere un ragazzo di 26 anni, Giuseppe il suo nome: venne subito messo in cella d’isolamento, l’unico posto libero dato che ancora non si risolve il problema del "sovraffollamento" nonostante la questione vada avanti da troppo tempo. Il giorno dopo, il 7 febbraio, essendosi liberato un posto nella mia cella, Giuseppe venne trasferito nella sezione comuni del primo piano. Venimmo a sapere che era stato arrestato per tentata estorsione, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. A vederlo, di primo impatto, appare un ragazzo spaventato e fragile sia fisicamente che psicologicamente; difficile riuscire a immaginare come avesse potuto opporre resistenza e creare lesioni agli agenti: per me non sarebbe riuscito neanche a spezzare uno stuzzicadenti. 
Comunque, così inizia la sua carcerazione: tutto il tempo a letto tranne quando si alza per prendere la classica terapia mista a calmanti per placare l’astinenza da droghe o per mangiare a dismisura per l’effetto dei calmanti. Evidente e continuo il suo crollo psicologico: chi lo aveva messo in quella situazione, considerandolo un pericolo per l’esterno, non aveva considerato che in realtà quel ragazzo poteva essere prima di tutto un pericolo per se stesso. 
Intanto il tempo passa e la depressione, di cui era già affetto, peggiora a vista d’occhio: spesso lo vedevamo parlare allo specchio. Finalmente arrivò il giorno del suo colloquio con la madre, durò circa 1 ora, e al suo rientro in sezione era tutto cupo e senza alzare neanche la testa rientrò in cella e poi se ne andò in bagno. Lo sentimmo piangere e Marian., il nostro concellante, aprì la porta, non oso neanche immaginare cosa abbia pensato nel vederlo in piedi su uno sgabello con una parte dell’accappatoio legata accuratamente contro le sbarre della finestra del bagno e l’altra estremità intorno al suo collo. Con molta calma e cautela gli intimò di scendere facendogli capire lo sbaglio del gesto e che con quella azione avrebbero vinto solo giudici e magistrati che non sanno giudicare ma solo condannare, senza capire i veri problemi e, senza pensare che le loro decisioni nella maggior parte delle volte hanno solo conseguenze negative. 
Quando l’episodio giunse all’orecchio dell’amministrazione, in carcere si dovettero prendere provvedimenti: ogni mezz’ora del giorno venivano a controllare se stava bene, ogni mezz’ora della notte venivano a puntare la luce per vedere se respirava, in conclusione un episodio del genere aveva creato disagi sia a noi detenuti che alle persone che lavoravano in carcere le quali si dovevano preoccupare del suo stato di salute.
Dato che comunque il problema di certo non si era risolto e vedendo che non si è trattato di un solo episodio, decidemmo noi amici della cella di dargli una mano affinché Giuseppe riuscisse ad affrontare la carcerazione in modo più sereno standogli vicino a turno in modo da non fargli commettere altre sciocchezze e facendogli anche capire come si doveva comportare. Dopo tante peripezie passarono giorni e settimane ma finalmente il 15 marzo sentimmo prima in tv poi leggemmo sul giornale che Giuseppe era stato scarcerato. Eppure era ancora lì. Insomma avevano dato la notizia della sua scarcerazione ancora prima che realmente avvenisse". (Immagine della Camera Penale di Pisa)