Per un carcere umano, intervista al magistrato Stefano Celli

04 Oct 2025 Antonella La Morgia

È ripartito a settembre il digiuno a staffetta “per un carcere umano” per denunciare le condizioni degli istituti di pena, iniziativa che si aggiunge a quella di Rita Bernardini per sollecitare misure contro il sovraffollamento. L’iniziativa che ha unito avvocati delle camere penali e magistrati si è spontaneamente estesa attraverso i social anche ai cittadini. L’idea è nata ai primi di luglio davanti ad un caffè di Milano. Ce lo ha raccontato il magistrato Stefano Celli a cui abbiamo rivolto alcune domande. Stefano Celli è pubblico ministero presso la Procura di Rimini e vicesegretario generale dell’ANM. Ha lanciato l’iniziativa insieme all’Avvocata Valentina Alberta, ex presidente della Camera penale di Milano. Per aderire al digiuno a staffetta si può inviare una mail all’indirizzo peruncarcereumano@gmail.com.
Dott. Celli, circa 500 persone hanno aderito da luglio al 13 agosto al vostro digiuno, avvocati, magistrati e semplici cittadini. La vostra iniziativa non violenta riprende ora con quale obiettivo?
Prima di tutto vogliamo continuare a sensibilizzare il decisore politico e l’opinione pubblica e ampliare la cerchia di consapevolezza sulla situazione del carcere che ogni giorno peggiora, ed è diventata da drammatica a tragica. È chiaro che non tutti si devono “curare” della situazione dei detenuti, in senso tecnico. Ma al fondo della questione, c’è un problema di percezione. Molti sono convinti che la situazione della pena, com’è oggi scontata in carcere, sia un corollario accettabile della stessa. Gli ultimi dati parlano di un sovraffollamento del 144% e anche superiore. I suicidi dall’inizio dell’anno sono 62, ma la differenza di qualche numero in più o in meno a seconda di come si leggono i dati non li rende accettabili. Il tasso di suicidi nella società libera è dello 0,59% mentre per i detenuti è il 18%, cioè quasi 20 volte quello delle persone che non sono in carcere. Però, anche se eliminassimo con un colpo di bacchetta magica i suicidi, l’attuale situazione delle carceri resta insostenibile.
Ci spieghi meglio perché?
Perché la pena detentiva consiste secondo il Codice Rocco (scritto da un ministro fascista) nella privazione della libertà, non nella privazione di tutti i diritti. Non significa, solo per fare alcuni esempi, la perdita del diritto alla salute o all’igiene personale. Ci sono istituti in cui i detenuti hanno dovuto fare ricorso al magistrato di sorveglianza perché non veniva riconosciuto loro il diritto di fare una doccia (calda) almeno una volta a settimana.
E di fronte a chi dice che il carcere “non è un albergo a cinque stelle”?
Non è un albergo a cinque stelle, ma neanche deve essere una prigione turca.
C’è indifferenza nell’opinione pubblica o cattiva informazione?
C’è la convinzione abbastanza diffusa, anche tra le persone più moderate e mediamente sensibili, che il carcere anche se non è un albergo a cinque stelle è un luogo in cui tutto sommato si mangia, si beve, si dorme e non si fa niente. Una parte preponderante del mondo politico asseconda e alimenta questa convinzione, perché ne ha un ritorno di consenso elettorale, e batte sui luoghi comuni, molto diffusi in rete, secondo cui in carcere si sta bene e noi viviamo insicuri. Poi, sì, c’è anche una certa pigrizia ad informarsi, perché se si aprono quasi tutti i giornali, con toni e accenti diversi, il messaggio che si legge è sempre quello. Se non c’è una voce dissonante… a nessuno può venire il dubbio su che luogo il carcere sia effettivamente.
Il digiuno può servire a far venire questo dubbio?
Se arriviamo a dirlo col digiuno noi pubblici ministeri, che siamo identificati in quelli che, nel gergo comune, chiedono di mettere in galera le persone, allora questo dubbio dovrebbe proprio venire alla gente.
Il sovraffollamento è una causa, anche se non l’unica, dei suicidi in carcere. Il Ministro Nordio quest’estate ha minimizzato il problema. Il Garante nazionale ha ricorretto il report inizialmente presentato sull’analisi dei decessi in carcere, dopo il richiamo del Guardasigilli. Come giudica questo episodio?
Nella mia veste di magistrato non critico, ma mi limito a registrare il doppio contrasto di vedute: da un lato la posizione del Garante e quella del Ministro, dall’altro l’aggiustamento del Garante che ha dato luogo a una precisazione o dissociazione (ma non è poi così importante la differenza) del Prof. Serio, uno dei tre componenti il Collegio. La discrasia è nei fatti e non spetta a me dire se sia grave o meno. Noto però che l’episodio sia stato un “diversivo” che ha fatto concentrare sulle polemiche tra i vari organi, ma non ci ha fatto fare passi avanti rispetto ai problemi. Il punto fondamentale non è definire se il numero dei suicidi sia sopra o sotto la media, e come debba ciascuno degli organi fare il proprio lavoro. È importante denunciare la realtà e proporre dei rimedi. Occorrono subito provvedimenti deflattivi che più che svuotarle, rendano le carceri un posto vivibile. Altrimenti non si può fare rieducazione e la pena è inderogabilmente anche trattamento rieducativo. La maggior parte delle carceri non è Bollate.
Quali proposte avete?
Una è la liberazione anticipata speciale prevista nel Ddl Giachetti. Come magistratura associata, gli avvocati come camere penali insistiamo sull’urgenza e fondatezza della proposta. Ci sono molte divisioni tra l’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) e le Camere penali, ma sul fatto che la situazione del carcere non è più tollerabile siamo tutti d’accordo. E insieme a noi ci sono l’associazione dei penalisti e numerosissimi professori di diritto costituzionale.
Perché non c’è convergenza della politica su questa proposta?
I processi sociali e di decisione hanno un grado di complessità che è figlio di una società a sua volta sempre più complessa e interconnessa. Occorrono politici veri, non politicanti, con la postura di statisti che sanno fare strategia e guardare lontano, non al risultato immediato. I reati hanno sempre un costo sociale. Da un punto di vista oggettivo il problema del carcere è serio e chi se ne deve occupare non sono i magistrati, non gli avvocati, i cittadini, ma il decisore politico.
Il Governo non vuole tagli lineari.
La proposta Giachetti-Nessuno Tocchi Caino non è affatto una soluzione di tagli lineari come l’amnistia o l’indulto e come erroneamente viene considerata anche dal Ministro Nordio. L’aumento dei giorni di liberazione anticipata non viene riconosciuto a chiunque, ma a chi ne ha già beneficiato. Se uno ha avuto i 45 giorni, ne avrà 75. Si facciano anche altre proposte, purché si ragioni a livello tecnico su misure veramente strutturali.
Quali misure?
Bisogna cominciare a pensare ad un carcere a tendenziale numero chiuso. Anche se il disegno di legge Giachetti venisse applicato, e sortisse un effetto benefico per un certo numero di mesi e anche di anni, è dichiaratamente provvisorio, perché la misura speciale interviene per un tempo limitato. Si vogliono
costruire nuove carceri dalla mattina alla sera? Intanto che si costruiscono, si svuotino parzialmente quelle che ci sono. Ci vuole una depenalizzazione profonda insieme all’introduzione di misure diverse dalla sanzione detentiva. È dimostrato che per certe condotte la sanzione penale diversa dal carcere può essere efficacissima sia a livello preventivo che retributivo.
La violenza secondo Aldo Capitini è anche un’oppressione cristallizzata nel tempo. I detenuti secondo lei sono degli “oppressi”?
I detenuti per definizione patiscono una pena, e chi patisce una pena è oppresso da questa. Se noi intendiamo oppressi nel senso di “puniti ingiustamente”, invece la punizione è giusta e legittima, perché interviene secondo regole, dopo processi, sì più o meno lunghi, ma in cui l’imputato prima di venire condannato ha la possibilità di fare ricorso e far valere le proprie ragioni. Nel momento in cui però alla pena si aggiungono delle limitazioni ai diritti fondamentali, non transeunti ma permanenti, non dovute a un momento di aggiustamento o a condizioni straordinarie, la pena non è più legittima e giusta. Allora, in una certa misura, la potremmo definire uno strumento di oppressione. Faccio fatica a usare questo termine, perché chi opprime normalmente lo fa volontariamente e non si potrebbe dire che lo Stato volontariamente opprime. Piuttosto, a monte di questa limitazione perdurante dei diritti ci sono negligenza e scelte sbagliate della politica.
Alcuni detenuti hanno aderito alla vostra iniziativa del digiuno. Hanno rischiato alla luce della recente norma introdotta sulla disobbedienza agli ordini e sulla resistenza passiva-rivolta?
Prima o poi qualcuno solleverà il dubbio di legittimità costituzionale di questa norma, che al di là della Costituzione è del tutto irrazionale e contrasta con il buon senso. Non ho notizie di iniziative disciplinari o peggio penali conseguenti a queste adesioni. Digiunare in quanto si concreti nel non toccare, o passare ad un altro, il vitto comunque preso dal carrello, integra un gesto inequivocabilmente pacifico e non violento, anche nella visione più inquisitoria e persecutoria della nuova norma. Solo in una concezione diversa che individua il detenuto non come un soggetto, ma come un oggetto, cioè una cosa su cui si esercita un potere, - “Io ti dico: mangia e tu devi mangiare, perché te lo dico io” - il digiuno potrebbe essere letto in chiave di resistenza/rivolta.

 (Articolo pubblicato nel numero di Ottobre di Voci di dentro)