Quel che resta del Covid: paura e controllo sociale un lustro dopo
12 Jan 2025 Vincenzo Scalia particolare della copertina di Voci di dentro, numero di aprile 2020Sono passati cinque anni da quando le notizie di un nuovo coronavirus, localizzato a Wuhan, in Cina, cominciarono a diffondersi in maniera sempre più insistente anche in Italia. All’inizio, il fenomeno, venne sottovalutato. La solita SARS, la solita aviaria, che si diffondono al di fuori del civile e asettico Occidente, si pensava. Finché non si cominciò a fare i conti con il controllo della temperatura corporea negli aeroporti, e a leggere le campagne di “prevenzione” del governo, che d’altronde, non avendo piena consapevolezza dei rischi reali, arrivò a dare dei consigli inappropriati per la minaccia in atto. La seconda tappa furono gli “esperti” in televisione, alcuni dei quali, tra i più autorevoli, affermarono l’impossibilità che il Covid-19, come era stato ormai ribattezzato, arrivasse in Italia.
La realtà si dimostrò essere sensibilmente diversa. L’Italia fu il primo paese occidentale ad essere vittima della pandemia da Covid. Chi scrive, ai tempi residente in Inghilterra, ricorda il terminal dell’Alitalia dell’aeroporto di Heathrow a fine marzo 2020 cordonato dalla polizia, come se gli Italiani fossero gli untori del XXI secolo. Anche perché, da un mese, l’Italia aveva chiuso le scuole, gli esercizi pubblici, interdetto la libertà di movimento, limitando gli spostamenti ai giri dell’isolato e a scopi funzionali, quali la spesa, le farmacie e pochi altri casi. In altre parole, si sperimentò la più grande limitazione delle libertà civili dal dopoguerra ai nostri giorni.
Nuovi termini, come “picco”, “bolla”, “lockdown”, “falsi positivi”, entrarono nel linguaggio corrente, mentre la lettura del bollettino dei nuovi positivi, dei morti e dei guariti, diffuso dal Ministero della Sanità ogni giorno alle 18, divenne un appuntamento immancabile, alla stregua di un programma o di una serie televisiva di successo. Per due anni la vita normale venne sospesa nel vuoto delle riaperture, richiusure, riaperture parziali, green pass più o meno rafforzati, dosi di vaccino necessarie. Uno scenario insolito, che innescò una serie di trasformazioni sociali e politiche, sia a livello di controllo che sul piano del discorso pubblico, che ci portiamo ancora oggi, e sulle quali varrebbe la pena riflettere.
La prima riflessione riguarda proprio la restrizione delle libertà civili. Nel caso italiano, si assistette alla chiusura dei giardini pubblici e alla limitazione dei movimenti attorno all’isolato. Una misura dura, con poche similitudini in altri contesti. Per esempio, in Inghilterra, si poteva circolare liberamente, pur se socialmente distanziati. L’Italia adottò questa politica sull’onda della paura che si diffuse per essere stati il primo paese dell’Occidente ad essere colpito dal Covid.
La paura, ingrediente principe delle politiche securitarie che regolano la convivenza civile implementate nell’ultimo trentennio, trovò durante il Covid il suo compimento. A parte poche voci, come quelle dei filosofi Massimo Cacciari e Giorgio Agamben (anche se non scevre da forzature), tutti, a destra e a sinistra, furono unanimi nel sostenere che la chiusura totale non fosse tanto l’unica cosa da fare, quanto la cosa da fare, tacitando chi provava ad accennare a un minimo esercizio di dubbio. Se è vero che la pandemia scoppiò improvvisa, che si trattava di una minaccia insidiosa in quanto anomala, a nessuno venne in mente che, specialmente nelle situazioni di emergenza, il confronto democratico delle idee è necessario, sia perché c’è in gioco l’esistenza della società stessa, sia perché un dibattito plurale può portare all’elaborazione di soluzioni diverse.
Per esempio, lo studioso Andrea Miconi, mostra come autorevoli medici di Harvard e Yale avessero sostenuto l’inutilità delle chiusure, a fianco della priorità di proteggere la popolazione a rischio, come gli anziani e i gruppi marginali. Altrimenti, si può affermare che la politica di restrizioni alle libertà civili attuata durante il Covid, è frutto dell’ambiguità tra la politica della paura e la paura della politica. Vero, bisognava fermare i contagi, evitare l’ingolfamento dei reparti sanitari, ma perché non lo si è fatto requisendo gli alloggi sfitti e le abitazioni di lusso, tassando i redditi più elevati, investendo urgentemente sulla formazione di personale specializzato? Si sarebbe trattato di un’inversione di rotta rispetto alle politiche economiche neoliberiste, che avrebbe riconfigurato i rapporti sociali in senso più egualitario, scompaginando gli equilibri creati alacremente dagli anni ottanta in poi.
Se da un lato è vero che le classi politiche non dispongono di orizzonti mentali predisposti a implementare siffatte politiche, né esistono contro-élite o movimenti sociali consapevoli e organizzati in modo da proporle o imporle, dall’altro lato le politiche della paura hanno rappresentato lo strumento più facile di governo della pandemia. Inoltre, hanno contribuito a rinsaldare i rapporti di classe e gli assetti politico-economici esistenti, portando la paura, con la conseguente dipendenza dalle autorità e la diffusione di attitudini delatorie e vessatorie, al loro apice. La formazione spontanea di gruppi di vicinato appostati con le fotocamere dei cellulari, pronti a segnalare alle forze di polizia ogni potenziale violazione del lockdown, corredata da denunce e aggressioni arbitrarie, non nasce da sola, ma è figlia della domanda di ampliare la legittima difesa e di formare le ronde di cui si fanno interpreti forze di destra. Si tratta di populismo poliziesco dal basso, che sfocia dalla domanda di sicurezza, e che nel Covid si è potuto manifestare pienamente.
A fianco del populismo poliziesco, si è dispiegato quello penale. Fu durante il Covid che il presentatore Massimo Giletti chiese e ottenne in diretta TV dall’allora Guardasigilli la cacciata del direttore del DAP, reo, secondo il presentatore televisivo, di scarcerare facilmente i mafiosi al 41bis e di sottovalutare il rischio che le rivolte scoppiate nelle carceri italiane per le restrizioni anti-Covid fossero strumentalizzate dai mafiosi. Il securitarismo, il punitivismo, durante il Covid, non furono ristretti. Anzi, si diffusero, come un vero e proprio virus parallelo. Così le rivolte di Modena, Santa Maria Capua Vetere e di altre carceri italiane, poterono essere represse a cuor leggero, col loro triste rosario di morti destinati a non ottenere mai giustizia perché considerati dall’opinione pubblica come il braccio armato dei mafiosi. Viceversa il carcere avrebbe meritato ben altra attenzione, con le restrizioni che deterioravano ulteriormente le condizioni di vita dietro le sbarre e il virus si propagava più velocemente a causa delle condizioni igienico-sanitarie precarie.
Infine, la paura produsse altra paura a mezzo dell’industria mediatica, impegnata ad intrattenere un pubblico costretto tra le mura domestiche. Fu durante la pandemia, ad esempio, che la fiction televisiva “Mare Fuori” venne trasmessa e riscosse un clamoroso successo mediatico, contribuendo a strutturare, in Italia, il panico morale attorno alla criminalità minorile, problematizzando i giovani come gruppo sociale pericoloso, innescando quella retorica sulle cosiddette baby gangs che è poi culminata nel varo, da parte dell’attuale coalizione governativa, del cosiddetto decreto Caivano, che sta minando alle fondamenta uno dei migliori sistemi giudiziari minorili europei.
Il secondo aspetto su cui sarebbe necessario riflettere riguarda la diffusione di letture complottiste. L’opinione pubblica, depauperata dall’unanimismo emergenziale della sua naturale funzione di vigilanza e di critica del potere, priva dei filtri intermedi di intellettuali e organizzazioni di massa, cominciò ad arrabattarsi in un fai da te in giro per internet, trascurando la necessità di vagliare l’accuratezza e la fondatezza delle fonti. Sappiamo che il Covid c’è stato e circola ancora. Che può essere mortale e che molte persone sono morte a causa di questo virus. Si sa anche, però, che è stato riscontrato a Wuhan, dove esiste un laboratorio internazionale che studia i virus, e che le autorità cinesi sono state reticenti a fornire informazioni sulla sua diffusione.
Non crediamo al China-virus del presidente USA Trump. Potrebbe essersi anche diffuso in seguito all’inavvertenza di un dipendente del laboratorio, o al basso livello delle norme di sicurezza. Non si può affermare niente con certezza. Tuttavia, l’indeterminatezza, la fede cieca nelle statistiche e nelle curve epidemiologiche, ha sviluppato, in mancanza di una discussione approfondita e articolata, la proliferazione di teorie del complotto che ha fatto la fortuna delle forze politiche di destra, che hanno vinto le elezioni in Italia e che mostrano la loro faccia arrogante e aggressiva in giro per il mondo. Anche in questo caso si innesca un circolo vizioso, col depauperamento dell’opinione pubblica che genera ulteriore ottusità e mancanza di senso critico, rendendo così la cittadinanza ancora più docile nei confronti del potere.
Infine, la riconfigurazione degli assetti economico-produttivi, marcia di pari passo alla pandemia. Le chiusure forzate hanno generato licenziamenti di massa, oltre alla cessazione di attività di piccole e grandi dimensioni, allargando la forbice sociale e generando ulteriore risentimento a cui nessuna forza politica è stata in grado, fino ad ora, di offrire uno sbocco costruttivo. Nel caso italiano, il declino industriale di cui parlava qualche anno fa Luciano Gallino ha subito una traumatica accelerazione, alimentando la trasformazione del nostro paese in un immenso Airbnb.
Non a caso, i posti di lavoro che il governo attuale si vanta di avere creato, riguardano prevalentemente i settori più dequalificati e sottopagati del turismo. Un vero e proprio deterioramento economico, professionale e materiale, a cui non sembra esserci rimedio.
Del Covid, cinque anni dopo, resta molto: autoritarismo, subalternità, populismo penale, povertà, disuguaglianza sociale, paura. Soprattutto, resta la destra, mai così sicura di sé dalla fine della seconda guerra mondiale. Sarebbe il caso di preoccuparsene. E di occuparsene.
Immagine: particolare della copertina di Voci di dentro, numero di aprile 2020