Se Codreanu risorge a Pisa

02 Mar 2024 Vincenzo Scalia

Dopo gli eventi di Pisa e Firenze del 23 febbraio 2024, la nostra prima ministra si è affrettata a dichiarare che mettere in discussione i poliziotti sarebbe “pericoloso”. Una dichiarazione preoccupante per varie ragioni, che stimola a sviluppare alcune riflessioni in merito al rapporto tra polizia e democrazia. Le dichiarazioni della premier denotano sicuramente la cifra della natura politica di questo esecutivo, che ha conquistato la vittoria elettorale col consenso del 25% degli italiani (queste sono le cifre esatte, visto che un terzo degli elettori si è astenuto), facendo della legge e dell’ordine il suo cavallo di battaglia. Effettivamente, un governo a sovranità economica limitata visto il debito pubblico e il declino produttivo del paese, che a livello internazionale si accoda pedissequamente alla NATO, può utilizzare le campagne d’ordine come bandiera o, meglio, come foglia di fico che giustifichi la sua permanenza in carica.
I decreti anti-rave e Caivano, il nuovo pacchetto sicurezza, ci parlano di un governo che fa del securitarismo il suo marchio di fabbrica, oltre che il suo collante interno. Perché non dobbiamo dimenticare che la coalizione governativa è attraversata da conflittualità interne, prima tra tutte quella tra la premier e il suo vice. La recente sconfitta elettorale in Sardegna, le prossime scadenze del voto amministrativo europeo, esacerbano in modo caricaturale questo bisogno di mostrare a tutti
i costi il pugno di ferro, in quanto si tratta della principale arma di persuasione di cui dispone la maggioranza governativa attuale. In terzo luogo, il partito della premier, ha nelle forze di polizia uno dei suoi principali bacini elettorali, come era chiaro fin dagli eventi di Acca Larenzia del 1978, quando l’allora MSI preferì non denunciare il poliziotto che uccise il militante neofascista per non inimicarsi uno dei suoi principali bacini elettorali. Vanno esattamente in questa direzione le dichiarazioni della premier, specialmente se le mettiamo in relazione con l’alacrità che contraddistingue il lavoro parlamentare destinato a sconvolgere la legge sul reato di tortura. Infine, è evidente che, in un contesto in cui i conflitti si moltiplicano a seguito dell’aumento del malessere socioeconomico diffuso, è evidente che i fatti di Pisa e Firenze, e le dichiarazioni della premier che sono seguite, rappresentino un monito a chi voglia opporsi al governo attuale e a rivendicare il rispetto e l’implementazione dei propri diritti. 

Tuttavia, a fianco di queste considerazioni di tipo strumentale, la convinzione che mettere in discussione il lavoro delle forze dell’ordine sia pericoloso, fa emergere un deficit di cultura politica democratica, che non può non preoccupare rispetto al futuro di questo paese. La premier si è vantata in passato, senza per altro rinnegarlo, di trarre la sua ispirazione politica da figure come Cornelius Codreanu, neofascista romeno, aedo di una comunità tradizionale fondata su Dio, Patria e Famiglia, in seguito idolo del governo collaborazionista romeno. Al di là della figura di Codreanu, è evidente che il governo attuale è convinto che, in nome di una presunta comunità omogenea, fondata su valori immutabili nel tempo, il conflitto rappresenti un’anomalia, una malapianta da estirpare, ricorrendo anche alle maniere forti allo scopo di evitare una disgregazione che sarebbe pericolosa.
Ora, a parte che i termini società e omogeneità sono agli antipodi, perché ogni aggregato sovraindividuale si caratterizza per il pluralismo di idee, valori, rappresentazioni e stili di vita, insistere sull’italianità  e imporre comportamenti uniformi a mezzo di una politica autoritaria, non risolve i problemi di un paese che ha perso la sua parte manifatturiera e affronta gravi crisi ambientali e i postumi del Covid. Ma soprattutto, la signora primo ministro, dovrebbe sapere che è stata eletta in seguito a un processo democratico, in un paese che fa della Costituzione antifascista il suo principio cardine, dove le libertà di riunione, di associazione, di espressione rappresentano garanzie costituzionali, che non si possono cancellare a colpi di manganellate su dei minorenni disarmati o a forza di decreti muscolari.

E non si tratta di valori astratti, ma della convinzione, tra l’altro suffragata dai fatti, che sottoporre al vaglio critico le idee, le pratiche, la politica del governo, gli apparati di Stato, misurare la loro aderenza ai principi cardini dello Stato di Diritto, limitarne gli abusi nei confronti dei cittadini, rappresenta il caposaldo di ogni comunità che si definisce democratica. La critica va perciò incoraggiata, piuttosto che imbavagliata e ostacolata a mezzo di modifiche legislative in favore dei
corpi repressivi.

Nel caso dei corpi di polizia, sollevare dubbi sulla loro struttura, criticarne il loro operato, avanzare perplessità sulla loro gestione corrente, rappresenta un’esigenza necessaria e imprescindibile per il miglioramento della vita democratica. In particolare, in un contesto, come quello italiano, dove non solo la smilitarizzazione della polizia è lungi dall’essere completata, ma anche per i molteplici abusi che regolarmente si verificano. Oltre alla coesistenza di un corpo militare, come quello dei
Carabinieri, che esercita funzioni poliziali, ci troviamo davanti a un corpo che, sebbene smilitarizzato, da anni non bandisce più concorsi per reclutamento, che comporterebbero la formazione a una gestione dell’ordine pubblico in senso democratico.

Da venti anni almeno, i poliziotti vengono reclutati tra le file dei militari che hanno svolto missioni di pace e che possono scegliere di transitare in polizia alla fine del servizio. Ne consegue che ci troviamo agenti che, piuttosto che pensare la loro funzione in direzione della protezione dei cittadini, vi si contrappongono frontalmente, considerandoli dei nemici. Lo si è visto già nel 2001, durante il G8 di Genova. Lo si è visto nei casi Aldrovandi, Cucchi, Magherini, Bianzino, in cui gli interventi della polizia sono degenerati in comportamenti abusivi che hanno causato la morte di questi concittadini. Lo si vede giornalmente, nell’approccio quotidiano coi migranti, coi rom e con le comunità LGBTQIA+.

Non si tratta di stigmatizzare a priori le forze di polizia, o di instillare un pregiudizio negativo nei loro confronti. Lo sforzo è quello di migliorarne l’operato, in modo da calibrarlo su misura delle aspettative e delle domande di una società democratica, sempre più plurale e complessa. Pazienza se Codreanu non contemplava questa impostazione. Noi ci ispiriamo a Gramsci, a Pertini, a tutti i partigiani che lottarono per un’Italia libera da abusi. Inclusi quelli delle forze di polizia.