Che l’informazione sia un regime, con regia a più mani s’intende, è l’unica certezza estraibile dalla confusione palpabile in questi giorni. Il regime guerrafondaio alla guida dell’Occidente da oltre un ventennio - Iraq e Afghanistan le prime campagne - ha arruolato da qualche anno la più letta e la più vista stampa, cui vengono impartite approfondite lezioni di dis-informazione e propaganda.
Troppo facile essere d’accordo con chi disse che la guerra ha la verità come prima vittima, e questa guerra permanente ha offuscato i fatti dietro cortine di bugie e falsi bersagli offerti alla pubblica riprovazione. All’appello manca, finora unico non pervenuto, il fatidico Dio è con noi!. Mai disperare, però.
La deontologia professionale del giornalista si incontra ormai, soltanto, nei testi che preparano al mestiere del cronista; qualche volta la si sente pronunciare nei dibattiti e nei seminari che parlano di massimi sistemi dell’informazione, per sfortuna limitatamente ai fatti di cronaca spicciola gonfiati ad arte per catturare tutta l’attenzione dei frequentatori dei salottini, televisivi e non, in alternativa alle dispute da tifo calcistico. Ma qualcuno, nella stampa più mainstream che c’è, mostra ogni tanto di non gradire l’arruolamento forzato al regime dell’informazione-propaganda.
E’ il caso di Michele Santoro, e altre firme più o meno importanti del nostro giornalismo. L’8 gennaio è stata la volta di Raffaele Oriani, firma di Repubblica e del suo settimanale. «Care colleghe e colleghi - ha scritto il giornalista in un messaggio allegato alle sue dimissioni dal gruppo editoriale - ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con il Venerdì. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni ed è sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15). Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori».
Le parole, gli slogan più spesso, tradiscono la propaganda. In Palestina si massacrano civili in una pretesa guerra al terrorismo, un film visto purtroppo molte volte. In Siria un decennio fa si diede fuoco alle polveri sotto il paravento mediatico di una guerra al dittatore, Assad. Istruttivo come pochi altri è il caso dell’Ucraina: era già guerra nel 2014 dopo il colpo di stato che depose il presidente filorusso Yanukovich; Kiev bombardava le città del Donbass e massacrava bambini. Ma poi il contrordine: no, non c’era mai stata guerra prima del 24 febbraio 2022; e tutto venne cancellato. Una spulciata negli archivi sepolti in rete dei giornali genera però decine di articoli e reportage di quella campagna contro i civili.
La stampa nasconde e, confidente nella memoria corta dell’opinione pubblica, le spara grosse.
Un esempio da manuale è l’antisemitismo che animerebbe i dissenzienti e anche i più timidi dubbiosi sulla natura difensiva e preventiva dell’inferno rovesciato da Israele su Gaza. Senza sapere che la maggioranza della popolazione di Israele è nettamente schierata contro questa guerra asimmetrica ai palestinesi della angusta striscia. Nel caso di Gaza la dis-informazione opera per magia: se la città è una Sodoma del terrorismo, Israele uccide quasi 30mila “terroristi” e lascia intendere che la guerra non è solo giusta, ma anche un successo. Le mezze verità e lo strame della logica sono poi cavalli di battaglia di questo regime della propaganda: i neonazisti di Germania sono scandalosi se rialzano la testa (e ci mancherebbe altro!), mentre i nazisti d’Ucraina combattono una guerra santa, degna di ogni benedizione. La croce uncinata obliqua esibita dalle migliori truppe di Kiev, il simbolo degli hitleriani, diventa, parola di inviato, antico simbolo asiatico di pace e chi la esibisce in battaglia è un diligente lettore di Kant.
Le catene ai polsi e alle caviglie di Ilaria Salis in Ungheria sono autoesplicanti: non è possibile accettarle, giacché manifestazione di un regime, quello ungherese, che a un esame accorto esibisce molti segni del fascismo e difatti non brilla per priorità ai diritti umani. D’altra parte, e si tratta di un rompicapo che i commentatori nemmeno tentano di risolvere, è tollerato da un’Europa in cui prove tecniche di regime vanno in scena ormai da anni. Al contrario, il regime di guerra totale e perpetua ai detenuti delle carceri italiane passa d’incanto in cavalleria – ma era comunque relegata, da quasi un secolo, nella più invisibile retroguardia - di fronte alle catene dell’aula di Budapest: il regime istituzionale e insieme mediatico delle prigioni è nei suoi giorni migliori, dobbiamo ammetterlo. La nouvelle vague del regime italiano, il governo attualmente in carica, si sbraccia per manifestare solidarietà alle guardie penitenziarie a ogni pie’ sospinto e mostra di considerare il governo delle carceri alla stregua di un ennesimo sovranismo parolaio.
Lo stato indecente in cui versano le galere italiane è sintomo grave della colpa collettiva di una nazione intera che vuole ad ogni costo ignorare tutto quello che avviene dietro quelle mura e dentro quelle celle. Preferiscono, quasi tutti, sognare luoghi della Giustizia che si compie perfetta, nonostante le poche notizie trapelanti da quell’universo oscuro rimbombino un assordante allarme: le carceri sono tornate all’dea originaria di discarica sociale. Un censimento Istat delle prigioni sul modello di quello riservato ai cittadini liberi, tra le prevedibili cifre sui metri quadri per detenuto, stato delle celle, qualità dei servizi igienici e dell’acqua, per elencare solo alcuni parametri, svelerebbe che una popolazione di 60mila individui vive relegata in un disagio degno del peggiore Ottocento, quando va bene. (l'articolo è pubblicato sull'ultimo numero della rivista VOCI DI DENTRO)
Traduzione in tedesco a cura di Stefano Costantini
Im Gefängnis oder unter Bomben die Verurteilungen von Papier-Regimen
Gedruckt, um die Wahrheit zu töten
Dass es sich bei den Informationen um ein Regime handelt, natürlich mit einer vielseitigen Lenkung, ist die einzige Gewissheit, die man in diesen Tagen aus der offensichtlichen Verwirrung ziehen kann. Das kriegstreibende Regime, das der Westen seit mehr als zwanzig Jahren anführt - Irak und Afghanistan waren die ersten Kampagnen - hat seit einigen Jahren die meistgelesene und meistgesehene Presse angeworben, die in Sachen Desinformation und Propaganda gründlich unterrichtet wird.
Es ist nur allzu leicht, denjenigen zuzustimmen, die sagten, dass der Krieg die Wahrheit als erstes Opfer fordert, und dieser permanente Krieg hat die Tatsachen hinter einem Vorhang aus Lügen und falschen Zielen verschleiert, die der Öffentlichkeit zum Fraß vorgeworfen werden. Auf dem Appell fehlt bisher, Gott ist mit uns! Doch verzweifeln Sie nicht.
Die professionelle Deontologie des Journalisten begegnet einem nur noch in Texten, die auf den Beruf des Reporters vorbereiten; man hört sie manchmal in Debatten und Seminaren, die von den maximalen Informationssystemen sprechen, die sich leider auf die trivialen Nachrichtenereignisse beschränken, die kunstvoll aufgeblasen werden, um die ganze Aufmerksamkeit der Besucher in den Sälen, im Fernsehen und anderswo auf sich zu ziehen, als Alternative zu den Fußballstreitigkeiten. Aber ab und zu zeigt jemand in der Mainstream-Presse, dass ihm die Zwangsverpflichtung der R e g i m e d e r I n - f o r m a t i o n e n - Propaganda nicht gefällt.
Dies ist der Fall bei Michele Santoro und anderen mehr oder weniger wichtigen Namen in unserem Journalismus. Am 8. Januar war Raffaele Oriani an der Reihe, der für die Repubblica und ihr Wochenmagazin schreibt. «Liebe Kolleginnen und Kollegen - schrieb der Journalist in einer Nachricht, die seinem Austritt aus der Redaktionsgruppe beigefügt war - ich möchte Ihnen mitteilen, dass ich meine Zusammenarbeit mit il Venerdì widerwillig beende. Ich arbeite seit zwölf Jahren mit dem Nachrichtenmagazin der Repubblica zusammen, und es ist immer eine große Ehre, wenn die eigenen Artikel in dieser großartigen Wochenzeitung veröffentlicht werden. Doch ich schließe hier, weil das anhaltende Massaker in Gaza von der unglaublichen Zurückhaltung eines Großteils der europäischen Presse begleitet wird, einschließlich der Repubblica (heute wurden zwei Familien in Gaza massakriert, letzte Zeile auf Seite 15). Ich verstehe das seit 90 Tagen nicht mehr. Tausende von Menschen sterben und werden verstümmelt, überwältigt von einer Flut von Gewalt, die man nur aus Faulheit als Krieg bezeichnen kann. Ich glaube, so etwas haben wir selten gesehen, und zwar vor den Augen der Öffentlichkeit. Und ich glaube, dass all dies weder mit Israel noch mit Palästina noch mit der Geopolitik zu tun hat, sondern nur mit den Grenzen unseres ethischen Halts. Vielleicht in Jahrzehnten, aber viele werden sich fragen, wo wir waren, was wir taten, was wir dachten, während Zehntausende von Menschen unter den Trümmern landeten. Was am 7. Oktober geschah, ist die Schande der Hamas, was seit dem 8. Oktober geschehen ist, ist die Schande von uns allen. Dieses Massaker hat eine mediale Eskorte, die es möglich macht. Diese Eskorte sind wir. Da wir keine Möglichkeit haben die Dinge zu ändern, bin ich mit schuldhafter Verzögerung raus »
Worte, vor allem Slogans, verraten Propaganda. In Palästina werden Zivilisten in einem angeblichen Krieg gegen den Terror abgeschlachtet, ein Film, den man leider schon oft gesehen hat. In Syrien wurde vor einem Jahrzehnt unter dem medialen Deckmantel eines Krieges gegen den Diktator Assad Staub aufgewirbelt. Aufschlussreich wie wenige andere ist der Fall der Ukraine: Nach dem Staatsstreich, mit dem der prorussische Präsident Janukowitsch abgesetzt wurde, herrschte 2014 bereits Krieg; Kiew bombardierte Städte im Donbass und massakrierte Kinder. Doch dann die Gegenbehauptung: Nein, vor dem 24. Februar 2022 habe es nie einen Krieg gegeben; und alles sei annulliert. Stöbert man jedoch in den vergrabenen Webarchiven der Zeitungen, so findet man Dutzende von Artikeln und Berichten über diese Kampagne gegen die Zivilbevölkerung. Die Presse verbirgt es, und da sie auf das kurze Gedächtnis der öffentlichen Meinung hofft, übertreibt es. Ein Beispiel aus dem Lehrbuch ist der Antisemitismus, der Andersdenkende und selbst die zaghaftesten Zweifler an der defensiven und präventiven Natur der Hölle, die Israel im Gazastreifen entfesselt hat, animieren würde. Ohne zu wissen, dass die Mehrheit der israelischen Bevölkerung eindeutig gegen diesen asymmetrischen Krieg gegen die Palästinenser in dem engen Streifen ist. Im Fall von Gaza funktioniert die Desinformation wie Magie: wenn die Stadt ein Sodom des Terrorismus ist, tötet Israel fast 30.000 “Terroristen” und suggeriert, der Krieg sei nicht nur gerecht, sondern auch ein Erfolg. Halbwahrheiten und das Aushebeln der Logik sind ebenfalls Arbeitspferde dieses Propagandaregimes: Die Neonazis in Deutschland sind skandalös, wenn sie ihr Haupt erheben (natürlich sind sie das!), während die Nazis in der Ukraine einen heiligen Krieg führen, der jeden Segen verdient. Das schräge Hakenkreuz, das die besten Truppen in Kiew tragen, das Symbol Hitlers, wird zu einem alten asiatischen Friedenssymbol, und diejenigen, die es im Kampf tragen, sind fleißige Leser von Kant.
Die Fesseln an den Hand- und Fußgelenken von Ilaria Salis in Ungarn erklären sich von selbst: Sie sind nicht akzeptabel, zugleich eine Manifestation eines Regimes, des ungarischen, das bei näherer Betrachtung viele Anzeichen von Faschismus aufweist und in der Tat nicht gerade durch seine Prioritäten im Bereich der Menschenrechte glänzt. Andererseits, und das ist ein Rätsel, das die Kommentatoren nicht einmal zu lösen versuchen, wird es von einem Europa toleriert, in dem seit Jahren Regimeproben stattfinden. Im Gegenteil, das Regime des totalen und fortwährenden Krieges gegen die Gefangenen in den italienischen Gefängnissen geht ritterlich vorbei – war aber auf jeden Fall fast ein Jahrhundert lang auf die unsichtbarste Nachhut verwiesen – angesichts der Fesseln des Budapester Gerichtssaals: das institutionelle und zugleich mediale Regime der Gefängnisse hat seine besten Tage hinter sich, das muss man zugeben. Die Nouvelle Vague des italienischen Regimes, die derzeit amtierende Regierung, zeigt sich bei jeder Gelegenheit solidarisch mit den Gefängniswärtern und zeigt, dass sie die Regierung der Gefängnisse als einen weiteren wortreichen Souveränismus betrachtet.
Der unanständige Zustand der italienischen Gefängnisse ist ein schwerwiegendes Symptom für die kollektive Schuld einer ganzen Nation, die um jeden Preis ignorieren will, was sich hinter den Mauern und in den Zellen abspielt. Sie ziehen es vor, fast alle, von Orten der Gerechtigkeit zu träumen, die perfekt erfüllt sind, obwohl die wenigen Nachrichten, die aus diesem dunklen Universum durchsickern, einen ohrenbetäubenden Alarm auslösen: Die Gefängnisse sind zu ihrer ursprünglichen Idee einer sozialen Müllhalde zurückgekehrt. Eine ISTAT-Zählung der Gefängnisse nach dem Vorbild derjenigen, die den freien Bürgern vorbehalten sind, würde inmitten der vorhersehbaren Zahlen über die Quadratmeterzahl pro Gefangenem, den Zustand der Zellen, die Qualität der Toiletten und des Wassers, um nur einige Parameter zu nennen, zeigen, dass eine Bevölkerung von 60.000 Personen in einem Elend lebt, das den schlimmsten des 19. Jahrhunderts entspricht, wenn es gut läuft.