Ventiquattro anni, di origine egiziana, gravi problemi di dipendenza. Si è ucciso ieri mattina impiccandosi in carcere a Pescara. Gesto finale dovuto a malessere e disagio e che ha provocato, come reazione, l’ira di molti detenuti che hanno dato fuoco per protesta a materassi e suppellettili e reso inagibile tutto il primo piano della sezione penale.
Giornataccia per il carcere di via San Donato: corridoi e celle si sono subito riempite di fumo nero, acre e tossico proveniente dai materassi che dovrebbero essere ignifughi, ma che in realtà sono semplici strisce di poliuretano dello spessore di pochi centimetri: per risparmiare sui costi e contravvenendo alle norme che prescrivono l’obbligo di utilizzo dei materassi ignifughi certificati per le strutture ricettive con più di 25 posti letto come ad esempio residenze sanitarie, RSA, case famiglia, case di cura, cliniche private, aziende sanitarie, alberghi. Norma che vale anche per le carceri dove invece viene tranquillamente violata.
Una giornataccia che è la conseguenza diretta di una politica del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che usa il carcere come il luogo del concentramento di persone in stato di disagio, di giovani sofferenti per problemi di dipendenza, di emarginati sociali e stranieri. In definitiva quello accaduto a Pescara è il punto d’arrivo di una mala gestione che ha accatastato (tra sezione penale e giudiziaria) oltre 440 persone quando i posti sono appena 270, facendo crescere il numero dei detenuti di giorno in giorno. Il risultato è che tanti sono costretti a dormire per terra sulle strisce di poliuretano perché mancano brande a sufficienza, e altri vengono rinchiusi in locali senza il gabinetto come le sale colloqui avvocati, la stanzetta barberia o nelle stesse celle in disuso perché inagibili. Senza dimenticare che oltre alle brande mancano anche gli sgabelli e che nel carcere di Pescara o si mangia a turno o seduti sulle brande. E queste cose le ho viste di persona, come di persona ho visto gli agenti di polizia penitenziaria, anche questi in numero ridotto: appena 100 quando la pianta organica ne prevede 170 costringendoli così a tripli turni, oltre venti ore di lavoro di seguito. A Pescara come nel resto delle carceri italiane dove mancano, come afferma Gennarino De Fazio, segretario Uil, ben 16 mila unità.
Con l’episodio di Pescara salgono a 13 le persone morte suicide in carcere, tre nello stesso istituto (Modena). Dall’inizio dell’anno è una strage, in tutto 24 morti comprese le persone decedute per malattia o per cause ancora da accertare.
Oltre alla fragilità, tutte hanno in comune un passato fatto di disagi, difficoltà di vita e una carcerazione in carceri malsani come appunto Modena dove un’ispezione effettuata da Antigone a fine 2024 aveva messo in evidenza sporcizia, pareti scrostate, porte dei bagni delle celle arrugginite, lampade nei corridoi non funzionanti e un sovraffollamento oltre ogni limite: 568 detenuti di fronte a una capienza regolamentare di 372 posti.
In un mondo normale, chi gestisce le cose così dovrebbe essere mandato via. E purtroppo non succede. Morto dopo morto, suicidio dopo suicidio, il carcere resta il luogo senza democrazia e senza diritti. La colpa di chi è? Dei detenuti che protestano? Io non lo credo proprio. E dubito che lo possano credere le persone di buonsenso.