Sulla guerra. Spunti di riflessione tra inclusione/esclusione, etica/diritto, devianza/ribellione

02 May 2024 Giuseppe Mosconi

Ripubblichiamo un articolo di Giuseppe Mosconi pubblicato sul numero di febbraio 2022 di Voci di dentro. Al centro di questa analisi la guerra in Ucraina ma dove già si prefigurano gli scenari dell'oggi in Medioriente. "Ritengo che si debba partire da uno stato d’animo che ci avvolge, ci penetra in questi mesi, in questi  giorni Alla drammaticità degli eventi in corso, come risulta anche solo da quanto riporta la televisione, si accompagna,  credo, una grande rimozione, un grande disorientamento insieme a una non considerazione delle variabili in  gioco, della loro possibile evoluzione, della pericolosità dello stato di cose, che altro non è che l’effetto del concorrere di una  serie di processi e di variabili che pongono al centro della questione guerra, in realtà, la problematica degli sviluppi e delle implicazioni internazionali del nostro modello di vita.

Quindi senza collocare questa situazione, anche in un arco di storia  pur limitato, nel quadro dei conflitti che attraversano il pianeta ovviamente non da oggi, che esplodono in  tante situazioni ( Il mondo è costellato di grandi e piccole guerre, di conflitti e comunque di grandi instabilità),  senza tenere conto del significato di questo sfondo nella geopolitica attuale, è facile un assoluto spaesamento,  o meglio un processo di rimozione e di ignoranza più o meno deliberata di ciò che questo fenomeno rappresenta. 

Questa chiave di lettura credo ci dia il senso anche di quella che è la nostra ambivalenza, per come anche personalmente la percepisco. Da un lato si avverte la gravità della cosa; dall’altro si vive come se niente di peggio e di più dovesse succedere, che venga a raggiungerci e ad alterare la nostra normalità quotidiana, continuandosi così a vivere come se niente fosse. Se non ci rendiamo conto che siamo immersi in questa dimensione esistenziale, davvero ci sfuggono tutta una serie di aspetti e di processi che in realtà ci riguardano molto da vicino. Mi riferisco, da un lato, al discorso della storia e della geopolitica: dall’altro, ai macro processi economici e ai conflitti sostanziali. Non c’è lo spazio, in questa sede, per delineare con esattezza e profondità questi aspetti. Però è evidente che siamo di fronte ad uno squilibrio delle relazioni acquisite. A partire dal crollo del muro nel ’89 è noto ed evidente che c’è qualcosa di nuovo rispetto a ciò cui eravamo abituati. Tutto sommato, quando è crollato il muro, avevamo detto che adesso sarebbe stato un mondo di pace; finita la guerra fredda, finito lo scontro tra i blocchi, si pensava di poter vivere più tranquilli, senza questa idea dell’invasione russa. E invece no, proprio tutto il contrario. Qui bisogna prendere atto che la fine dei blocchi, e però la  pervasività dei processi di globalizzazione economica e quindi da un lato il coinvolgimento che questo processo  produce nelle relazioni internazionali, dall’altro il dissiparsi, il frammentarsi di tutta una serie di micro conflitti non più riconducibili alla logica dei blocchi, hanno determinato un’alterazione tale per cui chi ha comunque pretese di egemonia è  sospinto a controllare la fluidità e il carattere frammentato di questi macro processi, riaffermando la propria prevalenza. 

Questi non sono più i blocchi definiti dopo il ’45; è un processo di ridefinizione potenziale dei blocchi dove quelli più tradizionali si compattano, vedi la NATO, mentre quelli meno acquisiti, più instabili, più frammentati cercano di acquistare uno spazio che li renda competitivi rispetto agli altri. Questo è un dato di realtà, perché al di là del fatto che Putin ci stia più o meno antipatico, o non possa, anche a mio parere, che risultare esecrabile, è un dato oggettivo che nel ridisegnarsi degli equilibri geopolitici si inneschino dei processi che possono andare in questa direzione, come riflesso di questa strategia. 

In questo quadro si inserisce la storia recente dell’Ucraina, regione/Stato a cavallo tra l’Est e l’Ovest, con delle vicende orientate ora in una direzione ora nell’altra, fino al disegnarsi di un conflitto esplicito tra una tendenza orientata a Ovest, a partire dal governo Porocenko, e una rivendicazione di appartenenza al contesto russo, culturale e russofono, che è proprio delle regioni del sud. Almeno questo è quello che è successo fino a poco tempo fa. Tanto che il Donbass rivendicava la propria autonomia, e che questa sembrava acquisita con i trattati di Minsk, i quali appunto prevedevano l’autonomia, l’autogestione. Gli stessi non sono stati applicati, tanto che ciò ha determinato una rivendicazione anche in forma violenta, delle mobilitazioni che non escludevano l’uso della forza a sud; ma che hanno raccolto un contrattacco violento da parte del resto del paese; il che ha innescato un processo bellico che dal 2014 ai nostri giorni, sostanzialmente, non si è mai interrotto. 

L’esplosione di attacchi reciproci, le repressioni più da Nord verso Sud che da Sud verso Nord, la tendenza da un lato a disattendere gli accordi, dall’altro ad aggredire, dentro lo Stato ucraino, le mobilitazioni dei territori indipendentisti, era un processo che andava avanti da anni. Questo va detto perché, di fronte a questo processo, l’Occidente, l’Europa in particolare, sono stati assenti perché, anche se questo è da decifrare, sostanzialmente non interessava porre fine a questo processo. Anzi. Ovviamente la bomba è esplosa quando l’attuale Presidente dell’Ucraina ha dichiaratamente manifestato la sua volontà di aderire alla Nato. 

Negligenza e insufficiente attenzione da parte dell’Europa

Oggettivamente, rispetto a una situazione di conflitto, si è trattato di una forma di provocazione. I fatti più recenti indicano che questo processo di accoglimento, per quanto con incertezze e ambivalenze, è definito e prima o poi arriverà in porto. Quindi l’Europa ha dato spazio a questa tendenza e questo ha dato motivo alla Russia di fare questa scelta scellerata, a mio parere, che non farà che peggiorare la situazione; scelta che non porterà nulla di buono; ma che d’altra parte è stata resa possibile da una negligenza, perlomeno da una insufficiente attenzione, se non dall’assenza di un orientamento strategico deliberato, che fosse all’altezza della situazione determinatasi. Ora, questa complessità del contesto e della crisi, nel momento in cui viene semplicemente ridotta all’idea e alla retorica dell’aggressione, dell’invasione, ai bombardamenti, alla crudeltà, ai profughi, al disastro di questa guerra che Putin ha voluto, si riduce allo specifico dell’aggressione.

Potenzialmente siamo alle soglie di una terza guerra mondiale

Questo ci porta francamente a una non considerazione delle variabili in gioco e dei contesti geopolitici, nonché della loro pericolosità. Perché se oggettivamente è in atto uno scontro tra un occidente che pretende di mantenere una sua egemonia e un mondo di secondi e terzi che si stanno aggregando, anche perché hanno i mezzi per farlo, in potenza siamo alle soglie di una terza guerra mondiale. Questo è quello che bisogna tener presente, rispetto cui la riduzione della retorica dell’invasione come oggetto di condanna non solo porta a semplificare la problematica complessa e molto preoccupante che viene rivelata da questi eventi, ma anche a rimuovere tutta una serie di aspetti specifici che sino a ieri sembravano di cruciale importanza. Quindi la gravità va vista non solo nella pericolosità attuale e futura della situazione, ma nel peggioramento e  nella aggressività, che questo fenomeno può assumere rispetto a una serie di problematiche anche recenti che  sembravano di cruciale importanza. Chi ha più paura del Covid? Anche se adesso torna l’allarme, a me sembra la favola di “al lupo, al lupo” e cioè tendenzialmente non ci crede più nessuno. Quantomeno la disponibilità a farsi vaccinare credo sia molto improbabile, o quantomeno frammentata e diversificata dal punto di vista del consenso.

La guerra fa dimenticare e fa aggravare emergenza clima, crisi e povertà

Rispetto all’allarme sociale per le conseguenze della guerra, l’attenzione alle strategie che erano state fino a ieri condivise per  contrastare i cambiamenti climatici e il surriscaldamento del pianeta passa totalmente in second’ordine, in contrasto con il fatto che bombardamenti, iperproduzione di armamenti, incendi, concentramento di convivenze umane in condizioni di precarietà, e quindi di utilizzo intensivo di risorse accessibili allo stato attuale, altro non possono fare che produrre un peggioramento del quadro climatico. Io non ho mai sentito descrivere, in sede mediatica, quali sono gli effetti sul clima, del riarmo e delle esplosioni, o almeno i notiziari che di solito ascolto non sollevano minimamente questi problemi futuri. L’immigrazione non è solo l’immigrazione dei profughi ucraini, (diremo poi due parole rispetto al modo in cui viene percepito questo fenomeno), ma il fatto è che, a fronte della stessa, l’effetto domino della crisi alimentare, della crisi energetica, del depauperamento ulteriore dei paesi meno sviluppati, della siccità e dell’aumento dei flussi migratori, si presentano complessivamente come una cosa non così allarmante. 

L’attenzione è concentrata sulla migrazione “buona”; questi sono vittime, hanno le case distrutte, hanno i russi cattivi che li massacrano, poveri bambini, povere donne e poveri senza papà; c’è tutta questa retorica che non è che non abbia fondamento, ovviamente in guerra esiste eccome, ma preoccupa il fatto che viene separata la sensibilità verso questi aspetti drammatici di questi profughi, rispetto ai fenomeni migratori nel loro complesso. Mi chiedo quanti orsacchiotti siano stati regalati ai bambini africani che arrivano a Lampedusa o in altri luoghi di sbarco, che sono stati per settimane a bagnomaria sulle navi che restano a largo, anche in tempi recenti, E’ quindi evidente come ci sia una percezione e una retorica completamente diversa a seconda del tipo di migranti, che altro non fa che confondere le idee. Consideriamo l’aumento della differenza tra ricchi e poveri, i problemi ambientali e climatici, le questioni energetiche, l’aggressione ai livelli di reddito e di qualità della vita, l’aumento della povertà e della disoccupazione, la destabilizzazione degli equilibri geopolitici. La guerra non fa che aggravare questi processi.

Se non teniamo presente tutto questo, la complessità del quadro in cui si colloca il fenomeno e la specificità delle singole emergenze che sembravano tutte impellenti e pressanti e variamente enfatizzate in questi ultimi anni, e quindi il loro aggravarsi per effetto della guerra, abbiamo l’immagine di una guerra che spaventa, impietosisce per le vittime, che porta a schierarsi in qualche modo, ma che non ci aiuta a stare dentro la concretezza e la consapevolezza di cui abbiamo bisogno. È il confermarsi della tattica dello struzzo, che l’occidente è abituato a praticare di fronte a molte emergenze. In genere le stesse non scatenano forti reazioni nell’opinione pubblica. Al di là del fatto che gli strateghi di queste campagne di allarme sociale sollecitino processi aggreganti, che scatenano a volte forti mobilitazioni, le stesse depauperano la sensibilità diffusa sul piano della consapevolezza delle motivazioni, della disponibilità alla mobilitazione. Quindi un po’ si agisce per assuefazione, per rimozione, un po’ si fanno gli scongiuri. Insomma si sopravvive. 

Quella che ancora una volta viene ad attestarsi è la vecchia logica, anche in questo caso, dell’amico/nemico. Lo abbiamo visto variamente per le recenti emergenze, l’ISIS, l’inquinamento, i migranti, le ONG, i no VAX, i filo Putin. Oggi, addirittura, i pacifisti, cioè coloro che si schierano contro l’idea che la pace si fa aumentando gli armamenti e sostenendo la difesa armata dell’aggredito, diventano dei traditori. Per quanto mi riguarda, è la prima volta, in tanti anni, che mi capita di sentire il termine pacifista in senso spregiativo; il che mi tocca particolarmente perché sono sempre stato partecipe nelle varie battaglie pacifiste negli scorsi decenni. Comunque colgo una continuità tra vedere un nemico nel pacifista e vedere un nemico nelle ONG, quando le stesse salvavano i migranti, come continuano a fare, quando gli impedimenti al loro lavoro proseguono sul piano amministrativo.

Questa idea che le scelte umanitarie salvifiche siano esecrabili, il fatto che siano fatte segno di disapprovazione e di dispregio, mi sembra che siano emblematici proprio del conflitto tra etica e diritto da un lato, ma anche tra inclusione ed esclusione. Siamo infatti al centro del conflitto tra inclusione ed esclusione perché in realtà ciò che si pone sul terreno degli interventi a protezione dei deboli, e quindi anche contro la guerra, è il fatto che si abbia un ruolo accettabile e dignitoso sulla scena politica e civile, o non lo si abbia. Non è quindi tanto l’esclusione del migrante, ma è l’esclusione civile di chi esprime solidarietà e di chi promuove inclusione. Quindi c’è un doppio livello di inclusione ed esclusione: quello tra il voler includere il diverso e il volerlo escludere; e quello di voler accreditare politicamente chi protegge e vuole includere il diverso e quello invece volerlo escludere.

Questi spunti mi inducono a cogliere un nesso tra la questione della guerra e quella del carcere. Infatti le dinamiche di esclusione/inclusione che la guerra attiva, dalla individuazione dei nemici alla selettività di chi merita aiuto (es. tra i migranti) portano in evidenza quell’attitudine ad escludere e rimuovere i pericolosi e i socialmente inaccettabili che sta alla base della natura e della funzione dell’istituzione carceraria.

Dai nemici esterni ai nemici interni per escludere e rimuovere

La questione di fondo che, ovviamente con modalità molto diverse, sta alla base di entrambi i fenomeni, è il nesso tra uso della forza e consenso. Così come la guerra ricompatta anche politicamente le popolazioni contro un nemico esterno, altrettanto la punizione e la reclusione afflittiva dei nemici della società e degli inadeguati/indesiderabili polarizza il consenso attorno alla necessità di “sorvegliare e punire”. D’altro canto la stessa semplificazione e rimozione dell’umanità del nemico, che ne legittima la soppressione nella scelta bellica, la ritroviamo nella rappresentazione, anche giuridica, e nella percezione dei soggetti meritevoli di afflizione carceraria. In gioco è sempre l’uso della violenza, anche culturale, contro l’altro pericoloso. E contro chi lo sostiene/fiancheggia. Questi aspetti ci portano alla questione del rapporto tra diritto ed etica, perché in realtà il tema del diritto in questo senso è stato fortemente investito da questi processi a vari livelli. Prima di tutto, (come dice molto bene un articolo per me illuminante di Alessandra Agostino sul Manifesto del 2 giugno) il fatto che la soluzione che si tende a dare alla questione bellica aggredisce decisamente la nostra Costituzione, perché si esercitano scelte egemoniche che rispecchiano l’egemonia esogena, cioè esterna, che viene da potenze forti, in primis l’USA, che sono al di fuori di noi, perché si disconoscono gli organi parlamentari, non si da alle scelte legislative l’iter funzionale previsto, si disconoscono i diritti sostanziali che la Costituzione protegge, si limita anzi si  tende ad escludere il conflitto che è un diritto pure costituzionalmente tutelato. Se l’invasione russa è assolutamente in violazione del diritto internazionale, anche il modo in cui la si sta contrastando appare claudicante e torbida sotto il profilo della legalità e del rispetto delle regole.

Oggettivamente siamo di fronte a una crisi di credibilità istituzionale e di partecipazione democratica. Questi sono tutti aspetti strutturali dei fenomeni bellici perché ogni guerra ha offerto il piedistallo e il consolidamento ai totalitarismi, e quindi il nostro diritto è messo sotto attacco. Perciò l’etica è offuscata, si perde di vista l’ispirazione etica di queste regole democratiche che ci siamo dati dopo la seconda guerra mondiale, con il  prezzo di sangue pagato con la Resistenza; quindi si disconoscono quei diritti e quei valori e nello stesso tempo non se ne fa rilevare la valenza etica, la quale è disconosciuta sia nel travisamento dei fondamenti etici delle norme, sia nel nascondimento delle violazioni da un punto di vista etico delle nuove determinazioni giuridiche affermatesi secondo queste modalità; il che viene a produrre un doppio livello di violazione. 

Un’altra dimensione molto rilevante è quella dell’ambiguità. Se noi prendiamo i tre macro soggetti in gioco che sono gli Stati Uniti, l’Europa e la Russia, come parti più immediatamente coinvolte, notiamo un’estrema ambiguità e ambivalenza. Gli Stati Uniti dicono di non voler portare il conflitto oltre un certo limite, non entrando direttamente nel campo di guerra in territorio ucraino, per quanto comincino ad ammassare le truppe negli stati dell’Europa orientale, e in qualche modo si autolimitano nel coinvolgersi nel conflitto; ma nello stesso fanno di tutto perché il conflitto si proroghi e si intensifichi, istigando allo scontro, offendendo e provocando gli avversari, con le ingiurie contro Putin; con la spinta ad includere nuovi stati europei nella Nato; cosa cui l’Europa acconsente, al prezzo di gettare in pasto al dittatore Erdogan i Kurdi, che pure hanno dato un loro determinante contributo di sangue nella lotta contro l’ISIS, mentre rivendicano a pieno diritto, e non da ieri, la loro autonomia, subendo persecuzioni e stermini. Ecco, sono loro ad essere ceduti come ostaggi al “mediatore” turco, che in realtà è sostanzialmente interessato a rafforzare la sua dittatura, annullando questa spina nel fianco

L’Europa dice di volere la pace, ma in realtà incrementa gli armamenti, così come fanno gli Stati Uniti, e si associa deliberatamente alla loro politica, affiancandosi totalmente al presidente Zelensky, che ne è diretto esponente. Dopo alcuni tentennamenti iniziali, con Macron che tratta con Putin e Draghi che nel discorso a Biden spinge alla pace, attualmente lo stesso batte il tamburo della sconfitta della Russia, confermando così il suo ruolo di agente incondizionato delle politiche atlantiche. Si determina così la capacità immobilizzante del paradosso. Se lo stesso dice una cosa e afferma il suo contrario, la scena del dialogo è blindata. Dire tutto e il contrario di tutto immobilizza la comunicazione. Nessuno vuole la guerra, ma tutti sono affannati in una lotta contro il tempo al riarmo, giustificata dalla ricerca di pace.  

Anche la Russia ha le sue ambiguità, nel senso che prima voleva prendere tutta l’Ucraina, ora si concentra sul Donbass. Ma il Donbass doveva e poteva essere reso indipendente da parecchi anni, senza alcuna violenza. Ora la Russia sta massacrando le popolazioni che erano a suo sostegno.  L’obiettivo è evidentemente quello di una sconfitta militare dell’Ucraina, con l’obiettivo di renderla una provincia dell’impero sovietico. La situazione a cui si arriverà, visto che sarà impossibile annullare l’avanzata della Russia, sarà l’indipendenza del Donbass al prezzo di almeno 50 mila morti, quando si poteva arrivare allo stesso risultato senza spargimento di sangue.

Bisognerebbe chiedersi: qual è il vero obiettivo di un prezzo così alto?  Il vero obiettivo sta nell’ambiguità incrociata tra le parti che evidentemente si riferiscono alla difficoltà di mettere le mani avanti rispetto a macro processi che riguardano ragioni economiche, l’uso delle fonti energetiche, (mi risulta che l’Ucraina è ricchissima di litio, che è la materia prima per i motori delle auto elettriche), il ridisegnarsi degli equilibri a livello geopolitico, le trasformazioni necessarie in atto. Quindi possiamo ritenere che sia questa la complessiva sostanza della situazione reale.

Ancora una riflessione sulla crisi del pacifismo. Non abbiamo certo le piazze piene come al tempo della guerra in ex Jugoslavia, o della guerra in Iraq. Perché le piazze sono vuote? Lo stesso movimento ambientalista non elabora attualmente una identità pacifista. La ragione alla base di ciò è che un pacifismo semplicemente ispirato da riferimenti etici e umanitari, che non riesca a confrontarsi con la complessità della situazione economica e politica, è un pacifismo che condivide nella sostanza la stessa scarsità di informazioni. su cui si regge il consenso alla guerra. È un pacifismo disorientato che non ha un impatto sui processi strutturali che stanno alla base di questa vicenda; è spaventato anche perché la consapevolezza della gravità del pericolo può scatenare l’effetto contrario alla mobilitazione, il bisogno di difesa, che deriva magari dalla più o meno inconscia fiducia nella difesa da parte della NATO.  Nel senso che “se ci attaccano almeno ci sono loro”.

Pacifismo disorientato e spaventato. Nessun impatto sui processi strutturali

Tutto questo complesso di elementi ci porta a ritenere che la situazione attuale generi, dal punto di vista culturale, tre effetti altamente negativi: la cancellazione della storia, la rimozione del presente e il blocco delle prospettive future. Questi tre elementi messi insieme hanno un effetto devastante: ci immobilizzano, ci lasciano disarmati all’incombere dei pericoli.  C’è davvero da essere preoccupati rispetto alla difficoltà di fare un salto in avanti nei livelli di consapevolezza e di mobilitazione.

Concludo con un breve cenno sul rapporto devianza/ribellione. La devianza in quanto trasgressività di comportamenti che alterano l’equilibrio della convivenza civile, è qualcosa di strutturalmente inevitabile nelle crisi e nei processi di trasformazione. Basti considerare come, all’indomani di eventi bellici, le carceri si riempiono.La ribellione, da parte dei soggetti marginali, è certo una forma di devianza reattiva, che esprime il disagio e porta a rivendicare, anche con modalità e mezzi illegali, un livello almeno minimo accettabile di benessere, nel senso di colmare il vuoto in cui altrimenti la marginalità si stabilizza. Ma, c’è anche una ribellione più consapevole, che si dà degli obiettivi politici e che guarda alla trasformazione economica e sociale necessaria. La devianza può quindi diventare ribellione. La difficoltà di una ribellione politica consapevole passa dunque attraverso una presa di consapevolezza, accompagnata dalla necessità di elaborare degli obiettivi praticabili.  

La poesia per dare senso e valore del vivere

Riuscire a parlare di queste cose e riprendere una parola forte, informata e consapevole rispetto ai fiumi di parole che ci invadono ogni giorno dai telegiornali e dalla stampa, anche da parte di persone intelligenti e preparate, non è affatto facile. Questi sono degli equilibristi. Non è mai che dicano “Questo è il problema e bisognerebbe fare così”. Certo è sempre pericoloso pensare a una parola con la P maiuscola. in quanto rischia di imporre assolutizzazioni. Però la parola riferita a fatti concreti e ragionata, ecco, a questa mi sentirei di dare la mia adesione, senza sacralizzarla e senza enfatizzarla. Dopo di che l’idea che a questa possa accompagnarsi la dimensione poetica mi piace molto, perché a questa consapevolezza vedo associarsi la speranza e il sogno, ma anche la sofferenza. La poesia è spesso anche coscienza sofferente; è anche espressione di una ricerca difficile e tormentata di una dimensione totalmente diversa che dia all’uomo il senso della vita e il valore del vivere; è anche il sogno, in quanto può tenere aperte molte possibilità. Quindi io vedrei come fortemente in tensione tra di loro la ricerca scientifica e la dimensione poetica e artistica. Io stesso di mestiere faccio il sociologo, ma anche scrivo poesie e canzoni. Penso infatti che la piena consapevolezza della realtà susciti anche quella dimensione emotiva, che si esprime spontaneamente, senza presunzione, con un linguaggio artistico.

Riprendendo la questione del doppio legame come forma di paradosso, si tratta del problema di come questo dispositivo possa bloccare il conflitto. Io risponderei facendo un passo indietro, osservando il contesto da cui un conflitto può scaturire. I conflitti si compongono di due variabili, la teoria e l’esperienza, Se noi percorriamo le vicende conflittuali della storia più recente, dal ‘68 in poi, avendo   vissuto intensamente l’esperienza di questi decenni, osserviamo che ci sono episodi diffusi e ricorrenti di conflitto, in quanto ci sono delle potenzialità che sono radicate in un senso di frustrazione, di disorientamento, e c’è qualcuno che prospetta una lettura delle cause di questo disagio, che diventa egemone nella situazione. Quindi il combinarsi di disagio e di narrazione- esplicitazione del disagio innesca il manifestarsi del conflitto. Non è sempre una condizione necessitante, ma sono due variabili che in genere interagiscono per promuovere lo stesso, Ora il paradosso a mio parere interviene nel narcotizzare entrambi queste variabili. A livello più generale, c’è sì il disagio materiale, il disagio economico, ma lo si percepisce come prodotto di processi inevitabili, quindi tanto c‘è il disagio, quanto non ci si riconosce nel pensare che si possono interdire le cause di questi disagi. In linea di principio, quindi un assuefarsi sostanzialmente rassegnato ai livelli di disagio diffuso.  

Dal punto di vista teorico altrettanto c’è una inadeguatezza dei teorici, da due punti di vista, direi la voce di due chimere, quella della ragionevolezza, della gradualità e quella della estremizzazione, della critica, quando si dice che è tutto sbagliato, che tutto deve andare radicalmente rovesciato.

Questi due elementi che si dispiegano sul piano teorico sono immobilizzanti e tra l’altro questa immobilità fa parte del fallimento sistematico della sinistra. Credo che questo sia l’effetto del paradosso, perché il paradosso afferma due elementi contrastanti la cui coesistenza tende a polarizzare il pensiero, così come a ottundere la percezione del disagio. Quindi, per rispondere alla domanda posta, si vanificano così le condizioni del conflitto.  

Pur in presenza di un arcipelago di varie associazioni ambientaliste, nonostante le varie mobilitazioni, la crisi climatica va avanti tranquillamente., Ecco un altro paradosso. Non più tardi di ieri sera. è stato annunciato che è stata prorogata di altri 5 anni la fine della produzione (e non dell’uso, che va ovviamente a protrarsi molto più a lungo) delle macchine a combustione fossile. E si inventano il green nucleare; una trovata di Calenda, d’accordo con Salvini. sei o sette centrali nucleari green. Quello che manca è la consapevolezza degli interessi che ci sono dietro, i quali sono talmente potenti e complessi che riescono a mascherarsi e ad affermarsi.  

E non abbiamo parlato di tutte le ambivalenze che riguardano l’aspetto commerciale, per cui se vogliamo punire la Russia, ma poi restiamo senza gas, diventa insostenibile; e la Russia lo sa benissimo. Adelante!...".

Nella foto la conferenza stampa di Bertrand Russel il 9 luglio 1955 (ad inizio della Guerra fredda) con la lettura della dichiarazione di Russel e Albert Einstein in occasione di una campagna per il disarmo nucleare