Un piano carceri che non restituisce umanità

28 Jul 2025 Lucio Boldrin*

Più leggo il piano carceri che il governo sta cercando di applicare, più ho la sensazione che siano una serie di provvedimenti che non restituisce umanità.
Nel pieno dell’estate in cui sovraffollamento, inattività e isolamento inaspriscono la sofferenza che nel 2025 ha già causato 45 suicidi, i provvedimenti del Governo rischiano di aggravare la crisi del sistema penitenziario, mortificando la speranza “giubilare” che la condanna non leda anche la dignità umana.
L’estate, per chi è detenuto, non è solo una stagione calda: è un inferno. Alle temperature estreme si somma la drastica riduzione delle attività educative, culturali e ricreative. Con l’arrivo delle ferie per operatori e volontari, per chi resta in carcere comincia uno dei periodi più duri dell’anno, contraddistinto da solitudine, inattività e isolamento.
Le scuole chiudono, le proposte sportive e culturali si diradano, le occasioni di contatto con l’esterno si fanno rare. In molte sezioni penitenziarie, questo vuoto si traduce in una maggiore chiusura delle celle, da cui si esce solo per le poche ore d’aria previste dal regolamento. 
Ma la parola d’aria è un eufemismo, se l’unico spazio disponibile è un cortile, in alcuni casi di cemento, magari pure privo di ombra. Il resto del tempo si trascorre in celle sovraffollate, soffocanti, per qualcuno, spesso per i più vulnerabili, senza nemmeno ventilatori, né frigoriferi per conservare l’acqua o il cibo portato dai famigliari o comprato in carcere per il sabato e la domenica o per le festività, dove anche il pranzo e cena della cucina interna viene portato tutto nella mattinata. In alcune Casa circondariali (destinate alle persone non ancora condannate in via definitiva), parlando con alcuni cappellani di altre regioni, per esempio a Brescia e a Milano San Vittore, la capienza effettiva è addirittura più che raddoppiata: per ogni posto disponibile, sono detenute almeno due persone. 
In queste condizioni di sovraffollamento, si finisce per trascorrere chiusi in cella fino a 22 ore al giorno, magari non potendo nemmeno stare tutti in piedi contemporaneamente, o dovendo mangiare a turno, in un clima che mette a dura prova corpo e mente. Il sovraffollamento e l’assenza di condizioni minime di vivibilità alimentano una sofferenza profonda, che troppo spesso si traduce in suicidi e atti di autolesionismo. Nei primi sei mesi di quest’anno, 45 persone si sono tolte la vita nelle carceri di tutta Italia. Un dato che dovrebbe turbare le coscienze.
Con l’avvicinarsi del Giubileo dei detenuti, in molti, noi cappellani compresi speravamo in provvedimenti di clemenza, espressamente chiesti da papa Francesco sin dalla Bolla di indizione del Giubileo della speranza, capaci di restituire dignità a chi è recluso e legittimità a un sistema penitenziario più volte condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. 
Come ha ricordato il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, la clemenza non è una «brutta parola», né un segno di debolezza delle istituzioni. È, al contrario, un atto di autorevolezza morale e giuridica di uno Stato che, sulla base di un chiaro mandato costituzionale, sa rispettare la dignità di chi è detenuto e di chi lavora nelle carceri. La certezza della pena, concetto prioritariamente e insistentemente invocato dalla politica quando si parla di sistema penale e detentivo e di politiche di sicurezza, non può prescindere dalla certezza del rispetto delle condizioni previste per la sua esecuzione. 
Eppure, il cosiddetto “Piano carceri” proposto dal ministro Guardasigilli Carlo Nordio nel corso del Consiglio dei Ministri a inizio settimana, ha prodotto solo misure timide, dettate da logiche sicuritarie e da una “passione punitiva” che rischia di aggravare ulteriormente la crisi del sistema penitenziario italiano, con provvedimenti in parte inattuabili, e comunque insufficienti ad affrontare per tempo un’emergenza che si fa ogni giorno più drammatica.
Nel campo penale, l’azione del Governo somiglia sempre più alla fatica di Sisifo (L'uomo che ha ingannato gli dei). La recente nomina di un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria e l’annuncio di migliaia di nuovi posti – i quali, nella migliore delle ipotesi, vedranno la luce solo nel 2027 – inseguono l’aumento senza precedenti della popolazione carceraria. Secondo l’associazione Antigone, negli ultimi tre anni in Italia il numero dei detenuti è aumentato di 5 mila unità.
Nel frattempo, con decreti sempre più repressivi, l’esecutivo contribuisce a gonfiare quegli stessi numeri che poi afferma di voler ridurre. L’ultimo decreto legge Sicurezza, per esempio, ha suscitato una critica corale: penalisti, costituzionalisti, le Camere penali, il Consiglio superiore della magistratura e perfino la Corte suprema di Cassazione (relazione 33 del 2025) lo hanno bollato come espressione di un punitivismo crescente, tra nuovi reati e inasprimento delle pene. 
Ne scaturisce un paradosso evidente: da un lato si aumentano i reati e si accrescono le pene, dall’altro si rincorre l’emergenza con container nei cortili delle carceri e promesse di ampliamenti. Un Sisifo autolesionista, che il masso se lo getta a valle da sé.
Nel Piano carceri si intravedono, almeno sulla carta, due misure deflattive.
La prima è una “detenzione differenziata” per persone con dipendenze da alcol o droghe, che potrebbero accedere alla detenzione domiciliare in comunità terapeutiche per gli ultimi otto anni di pena, ma solo se il reato è direttamente legato alla dipendenza. Tuttavia, anche oggi esiste la possibilità di affidamento terapeutico per pene fino a sei anni, eppure restano in carcere persone con dipendenze certificate e residui inferiori a quel limite. Come si provi il legame tra il reato e la condizione di dipendenza sarà, poi, tutto da vedere.
La seconda misura mira a semplificare le procedure per la liberazione anticipata. Ma, come ammesso dallo stesso Ministro, l’onere ricadrà sui tribunali di sorveglianza, già oggi gravemente in affanno. La prevista informatizzazione dei fascicoli personali dei detenuti, date le precedenti esperienze di digitalizzazione della giustizia, lascia più dubbi che certezze.
Almeno una promessa si spera venga davvero mantenuta: l’aumento delle telefonate per le persone detenute. Con esso, servirebbe semplificare le procedure e ridurre i costi per permettere anche agli stranieri di restare in contatto con i propri cari. Resta dunque inesausto, nel tempo del Giubileo, il desiderio di misure davvero efficaci e rapide per affrontare seriamente la questione del sovraffollamento, restituire dignità alle carceri e umanità alla pena. 
La condanna può privare della libertà: ma non dovrebbe mai togliere la speranza.

*Cappellano a Rebibbia