Vite che non sono le nostre, ma che sono uguali alle nostre

19 Jul 2024 Antonella La Morgia - nella foto immagine dal film "Safety Last" opera del 1923

Di sicuro c’è che in carcere si muore. È quello che dobbiamo constatare dopo l’ennesimo suicidio. E siamo a doverne contare 58. Nelle ultime settimane non si fa in tempo a scrivere, che il numero delle persone detenute che si tolgono la vita aumenta (con un ritmo ormai di una ogni due-tre giorni). Giovani e meno giovani vite. Comunque vite che non sono le nostre, parafrasando il titolo di un libro di Emmanuel Carrère in cui lo scrittore racconta di perdite che lo hanno spinto a riflettere (Vite che non sono la mia) sulla morte. Vite che non ci sono più.
“È la visione simbolica di essere approdati in quel luogo a costituire un fattore determinante per tali decisioni estreme: quella sensazione di essere precipitato in un “altrove esistenziale”, in un mondo separato totalmente ininfluente, o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni, che caratterizza il luogo dove si è giunti, ad essere determinante”. Così scriveva l’anno scorso Mauro Palma ex Garante Nazionale delle persone private della libertà nel testo intitolato “Per un’analisi dei suicidi negli istituti penitenziari”, aggiornando insieme ad altri autori un suo precedente articolo prima comparso su Questione Giustizia (5 settembre 2022).
Dove l’isolamento, l’estraneità rispetto al mondo, la percezione della (quando proprio la reale) negazione della dignità che spetta all’essere umano sono il simbolo di quel luogo, anche il suicidio deve essere visto, in molti casi, come simbolico.
Intanto, è simbolo di una costante e più recentemente aggravata disattenzione della politica per l’umanità in carcere e del carcere. Perché altrimenti non avere dato un nome diverso, per esempio Decreto carcere più umano, invece che “Decreto carcere sicuro” al recente pacchetto di norme emanato dal Governo, il decreto-legge N 92 del 4 luglio 2024 ( Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia) in vigore dal 5 luglio?
Sicuro allora perché? O per chi? Per rispondere meglio alle esigenze securitarie, diremmo, le sole che sembrano dover governare nel corso politico attuale la gestione degli istituti di pena. In omaggio a queste esigenze, il Decreto-legge stabilisce l’assunzione in 2 anni (non prima di ottobre 2025) di 1000 agenti. Il Sindacato di Polizia ne ha chiesti 20.000 e ha chiesto anche - e soprattutto- che sia potenziato il personale psicologico e medico, il quale meglio può Intervenire se c’è il sospetto o il rischio di intenzioni suicidarie. Il caso del detenuto di Augusta che si è suicidato dopo uno sciopero della fame è un caso di rischio che rientra in un quadro psicologico prevedibile che poteva richiedere un lavoro di aiuto/ascolto, più che di vigilanza.
Il DL stabilisce anche l’ingresso di 20 nuovi dirigenti. Ne gioiremmo, se non fosse che si compensano quelli in via di pensionamento.
Preoccupa anche un altro capitolo del Decreto: quello della formazione. Di formazione del personale si parla quando scoppia il caso (conosciuto perché oggetto di indagine o video-denuncia, ricordate Santa Maria Capua Vetere?) di abusi sui detenuti. Allora si invoca una formazione più adeguata della polizia penitenziaria. Invece con questo DL cosa si fa? I tempi della formazione iniziale degli agenti si riducono per garantire un loro più veloce ingresso nei ruoli operativi.
C’è da pensare che il nome Decreto “Carcere sicuro” è stato scelto solo perché poteva essere meglio gradito: politically liked, insomma, al posto del politically correct.
Di sicuro c’è, torniamo a dire, che in carcere si muore, e si continuerà a morire. Questo è ciò che rende più giustizia al nome del Decreto Legge voluto dal governo, perché si è guardato all’efficienza e alla sicurezza. Non di certo ad umanizzare la pena, non a cercare di dare più speranza (“Nessuno sconto! “- è stato precisato).
Il contentino delle telefonate in più, che aiutano ma non sono il cuore della disumanità carceraria, non offrirà una soluzione al sovraffollamento. Anzi, lo complica, perché organizzare le videochiamate e le telefonate in più (pure due in più), con i numeri dei detenuti che non diminuiscono ma aumentano negli istituti non sarà problema da poco. Si tratterà in ogni caso di dover attendere il regolamento che darà esecuzione all’aumento delle telefonate, generalizzando ciò che la legge già consente ai Direttori di accordare in base alla clausola dei motivi di particolare rilevanza.
Nello stesso modo, le modifiche in materia di liberazione anticipata sono state ritenute dai tecnici non in grado di incidere molto sul decongestionamento; piuttosto influiranno sui tempi della procedura con un impatto che in ogni caso pare non rilevante dal punto di vista funzionale.
Una fumosità che investe infine anche le disposizioni sulle strutture di comunità per l’accoglienza e il reinserimento di soggetti come quelli dipendenti da sostanze e senza fissa dimora. Il DL le annuncia, ma si dovrà aspettare per tutti i profili (creazione di un albo, caratteristiche di sicurezza, ecc) un altro decreto del Ministro della Giustizia entro sei mesi dalla conversione dello stesso Decreto legge N92.
Allora? Proclami, insomma, mentre i detenuti continuano a morire. Come è stato scritto da qualcuno: vite a perdere.
Vite che però ci chiedono di fermarci a riflettere, di fermare il drammatico conto delle perdite. Perché tutte le “vite che non sono le nostre” sono uguali alle nostre vite.