Ci sono porte che si aprono con un rumore assordante e ti fanno entrare in un mondo che non immaginavi, fatto di odori unici e voci a volte alte e altre volte troppo basse, inesistenti.
Per me è successo quasi quattro anni fa, quando ho iniziato a lavorare negli istituti di San Vittore e Bollate con la Fondazione Archè di Milano, più precisamente presso l’Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute (Icam) e all’interno della Sezione Nido del reparto femminile di Bollate. Da allora, il carcere è diventato il mio spazio di lavoro, un luogo di incontri che mi ha cambiata e per certi versi é anche casa, anche se può sembrare paradossale accostare questo termine ad un istituto di pena.
Ho scelto di aderire alla proposta di Fondazione Archè di pubblicare il libro perché la maternità in carcere è un tema che resta ancora troppo nell’ombra, ma più del 60% delle donne detenute in Italia è madre. La maggior parte vive la maternità lontana dai figli, altre li hanno con sé dietro le sbarre e solo poche vivono in ambienti che raramente sono adatti alla crescita di un bambino. Ho voluto dare voce alle loro storie, al dolore e alla forza che ho visto nei loro occhi.
La copertina del libro è una parte di me: un disegno ricavato da una foto scattata durante una gita in battello sul lago di Como con sei bambini che vivevano in carcere con le loro mamme. Uno di loro non usciva da sei mesi dal contesto penitenziario, aveva due anni: un quarto della sua vita lo aveva passato dietro le sbarre. Quel giorno, l’acqua che ci sfiorava, la sua paura e meraviglia insieme, mi hanno ricordato quanto bisogno abbiamo di alternative concrete alla detenzione per madri e bambini. Ogni giorno vedo quanto sia difficile essere madre in carcere: il senso di colpa, la solitudine, l’assenza di supporto e di spazi adeguati. In Italia, solo a Milano esiste un’équipe educativa specializzata per la maternità in carcere; altrove il sostegno arriva, se arriva, da volontari o piccole associazioni. É importante ricordare che, prima di essere madri, sono donne e necessitano tutte di percorsi educativi e psicologici mirati e individualizzati.
Eppure, in mezzo alla sofferenza, ho visto anche cambiamenti profondi. C’è chi ha imparato a leggere e scrivere, chi ha giocato per la prima volta con i propri figli, chi ha trovato il coraggio di interrompere relazioni violente. Il carcere può diventare occasione di riscatto, ma solo se si sceglie di viverlo in modo attivo, e non è mai un processo facile.
Non esiste una risposta semplice alla domanda: è giusto che un bambino viva in carcere con la propria madre? Ogni storia è unica. Il 17 giugno 2025, il giorno in cui è uscito il mio libro, ho assistito alla separazione forzata di un bambino dalla sua mamma. È stato straziante. Quel giorno ho capito che dire “mai più bambini in carcere” è facile, ma la separazione è una ferita profonda, che può fare altrettanto male. Emerge perciò l’urgenza di creare soluzioni alternative e concrete all’esterno delle mura così da non dover più assistere a situazioni simili.
Il cuore del mio lavoro è l’ascolto. Una donna mi ha confidato di aver scritto una lettera al figlio di 14 anni, ma di non avere il coraggio di consegnargliela. Nelle sue parole c’era tutto: amore, colpa, paura e una richiesta silenziosa di aiuto. È in questi momenti che capisco quanto la maternità in carcere sia fatta di contraddizioni e verità scomode, ma anche di una forza che merita rispetto.
Con il mio libro voglio contribuire al percorso verso un cambiamento reale: miglioriamo gli Icam, implementiamo le Case-Famiglia Protette e costruiamo più programmi di supporto e reinserimento, ma anche più formazione per chi vi lavora all’interno.
Il carcere non riguarda solo chi ci vive dentro: è lo specchio della società che siamo e di quella che vogliamo diventare.
Valentina De Fazio, educatrice professionale e autrice del libro “Madri detenute. Dal lavoro educativo in carcere alla ricerca sociopolitica “, appena pubblicato, lavora per l’Area Carcere di Fondazione Arché e da quattro anni opera quotidianamente all’interno delle carceri milanesi, in particolare nei progetti rivolti a madri detenute.