<p style="text-align: center;">di CLAUDIO BOTTAN</p>
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<h3 style="text-align: left;"><span style="font-size: small;"><i><b style="text-align: right;">...Sfuggire al cambiamento</b><br />
<b style="text-align: right;">vorrebbe dire sprecare il dolore</b></i></span></h3>
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<p> Si può entrare in galera e uscirne da una "porta" di cambiamento che qualcuno ha aperto? </p>
<p>Non faccio buonismo, tutt’altro. Il carcere cambia per sempre ed è innegabile, ma sfuggire al cambiamento vorrebbe dire sprecare il dolore.</p>
<p>L'illogicità che la detenzione lascia addosso una logica ce l'ha, tutta sua: vera galera non sono le sbarre, il cemento. La galera, quella che piega la roccia, è lo stare esposti alle domande, reggere l'urto del passato senza defilarsi: le domande dei più giovani (non potevi pensarci prima?), le domande di mio figlio (papà, perché?), gli sguardi della gente, le loro attenzioni, i miei rimpianti: questa è la galera che mi tormenta. Mai l'avrei immaginato mentre ero là dentro. </p>
<p>Allora devono spalancarsi le porte su quel luogo buio, fermo nel tempo, ma in cui il tempo è l'unica cosa a contare davvero. Il carcere ha bisogno di essere raccontato, deve essere ascoltato dalla voce di chi ha avuto la dolorosa sventura di passarci per la pena; deve essere condiviso con chi ha scelto di entrarci per alleviare la pena di altre persone. Incontrare i volontari significa restituire parte del calore umano ricevuto; il solo fatto di sentirsi chiamare per nome, in un luogo ingessato dai ruoli che impongono distanze tra buoni e cattivi, è una porta aperta verso il cambiamento. Ci vuole il coraggio di varcarla quella porta, volontariamente.</p>