Tecnicamente si chiamano “spese di mantenimento”, e già ci sarebbe da sorridere. Quel conto di 112 euro al mese per spese di vitto e alloggio che lo Stato presenta agli ospiti che hanno soggiornato nelle patrie galere, poco dopo il check-out viene recapitato direttamente (e celermente) dall’Agenzia delle Entrate al malcapitato utente di quello che l’opinione diffusa ritiene essere “un albergo a cinque stelle”. Pessimo “hotel”, perennemente in overbooking e con cucine da incubo, la cui reputazione verrebbe inesorabilmente stroncata dalle recensioni negative.
Il detenuto è obbligato al pagamento delle spese di mantenimento, in base a quanto sancito dall'art. 2 della legge n. 354/1975 e da diverse norme del Codice penale e di procedura, comprensive del costo dei pasti e dell’uso del corredo personale fornito dall’amministrazione penitenziaria (materasso, lenzuola, piatti, posate, ecc.). Su istanza del detenuto, il magistrato di Sorveglianza può disporre la remissione del debito in caso di difficoltà economiche, se l’interessato ha mantenuto una buona condotta. In sostanza, chi non può pagare chiede che gli venga cancellato il debito verso lo Stato relativo sia alle spese di mantenimento in istituto, sia a quelle del procedimento. Istanza, questa, che può essere proposta «fino a che non è conclusa la procedura per il recupero, che è sospesa se in corso». Un debito che impedisce, ad esempio, di richiedere la riabilitazione e il rilascio del passaporto.
La remissione del debito è considerata un beneficio, un “premio” e non un diritto riconosciuto al detenuto in funzione della regolare condotta mantenuta successivamente alla condanna, tale da favorire il reinserimento nella società libera a fine pena, attenuando l’impatto della dimissione dal carcere, spesso caratterizzato da difficoltà economiche. E, come per tutti i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, quali - ad esempio - la liberazione anticipata, i permessi premio e le misure alternative al carcere, anche per la remissione del debito non sono previsti termini perentori per ottenere una risposta dal competente ufficio di Sorveglianza che “può”, e non “deve” – in presenza dei requisiti previsti –, disporre che sia cancellato il debito.
Quel “può”, quando ha tempo e senza fretta, teoricamente potrebbe durare all’infinito. Anche nove anni, come nel mio caso. Mi è capitato, nel mio lungo tour delle prigioni, di soggiornare anche alla casa circondariale di Busto Arsizio e, casualmente, proprio nel periodo a cui si riferisce la famosa sentenza pilota Torreggiani che, sempre per caso, ha condannato l’Italia proprio per i trattamenti disumani e degradanti degli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza. Va da sé che nel 2015, quando mi è arrivato il conto per il “soggiorno all’hotel di via per Cassano”, ho immediatamente proposto istanza per la remissione del debito.
La risposta è arrivata a fine giugno 2024, appena (si fa per dire) nove anni dopo: “Si rigetta in quanto, dal registro, risulta che in quattro occasioni è stato sanzionato con ammonizione del direttore per non aver rispettato le regole”. Poco importa che i rapporti disciplinari siano stati annullati dal tribunale di Sorveglianza di Milano a seguito del reclamo con cui ho specificato che si trattava di quattro sanzioni disciplinari pretestuose irrogate dallo stesso appuntato, solo casualmente (?) soprannominato “Tavernello”, tant’è che mi è stato riconosciuto il beneficio della liberazione anticipata per il semestre “incriminato”. Quattro rapporti disciplinari in quattro giorni durante la permanenza al carcere di Vicenza, una delle nove tappe del tour, con motivazioni che avrebbero ispirato a Kafka il sequel de “Il processo”: “Si attardava in biblioteca”; “Era alla lavagna e confabulava con i detenuti durante il corso di agraria”; “Passava furtivamente un manoscritto all’insegnante”. L’apoteosi arriva poi con il quarto rapporto disciplinare redatto sempre dall’appuntato Tavernello al quale, evidentemente, non stavo particolarmente simpatico: “Il detenuto si rifiutava di obbedire all’ordine di tornare in cella”. Peccato che quel giorno fossi già in un altro carcere a seguito dell’ennesimo trasferimento del rompipalle che non riusciva a controllare la penna e osava persino denunciare la presenza della “squadretta” propensa ai pestaggi e le ruberie ormai consolidate.
Dopo dieci anni di pena sono libero da un paio di settimane. Potrei, e forse dovrei, pensare solamente a godermi il rumore delle onde di quel mare che per tanti anni ho sognato. Ma è più forte il desiderio di placare la rabbia, di trovare un senso alla sciatteria: bastava schiacciare un tasto per verificare che avevo aderito pienamente al percorso rieducativo. La carenza di organico negli uffici di Sorveglianza è un dato di fatto, ma non può diventare un alibi quando è causa di infinite e ingiustificabili limitazioni della libertà personale.
Continuo a rigirarmi tra le mani un rigetto che certifica le difficoltà in cui annaspa la giustizia; potrei archiviare la pratica e guardare oltre, ma questioni di principio mi impongono di andare avanti. Affinché qualcosa cambi occorre essere disposti a rinunciare a pezzetti di provvisoria libertà e a qualche bagno al mare.
*ex detenuto, vicedirettore della rivista Voci di dentro